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Babylonpost – La sindrome di Giovanna D’Arco

Domenico Fargnoli
martedì 22 ottobre 2013 11:22

Dalla storia di Eleanor Longden e Cristina Contini, i tanti perché del fallimento della psichiatria organicista e dell’antipsichiatria.

Eleanor Longden è una psicologa inglese che fa parte del Comitato internazionale per la revisione critica del DSM-V. Ha una storia personale molto singolare in quanto ha subito, all’età di quattro anni un abuso sessuale da parte di un gruppo di pedofili sadici. Come racconta nella sua biografia ha sviluppato in conseguenza di ciò, un falso sé che le è servito a mascherare un evento dissociativo.

Babylonpost - La sindrome di Giovanna D'ArcoA vent’anni ha cominciato a sentire delle voci: è stata ricoverata e le è stata fatta una diagnosi di schizofrenia e trattata con antipsicotici. Aderisce al HVM (Hearing voices movement) un’organizzazione internazionale di coloro che, come lei, pur sentendo le voci, ne sono orgogliosi e non si ritengono malati. Segue un percorso di recovery, di riabilitazione che non è una therapy, una cura in senso medico, nell’ambito di un orientamento detto post psichiatrico o post moderno ispirato alla filosofia di Heidegger. Nonostante la diagnosi ed il trattamento medico, si laurea e specializza in psicologia clinica, mentre le voci divenute amiche, le suggeriscono le risposte agli esami. Nel 2013 partecipa al TED (una prestigiosa sessione di conferenze californiane) e il suo video online viene cliccato un milione di volte.
Nel suo libro “Learnig from the voices in my head” si legge che il concetto di schizofrenia, identificata con una malattia neurodegenerativa non ha alcuna validità ed è privo di senso. Il DSM-V sembra darle ragione: non c’è accordo fra gli psichiatri che cambiano continuamente impostazione. I deliri bizzarri e l’udire e conversare con le voci ( i noti sintomi di primo rango secondo Kurt Schneider) sono stati declassati e non sono più gli indicatori principali di malattia. I sottotipi (simplex, ebefrenico, paranoide e catatonico) che risalgono alla famosa monografia del 1911 di Eugen Bleuler, “Dementia praecox od il gruppo delle schizofrenie”, sono stati aboliti perché ritenuti inutili ai fini di quello che sovente è solo un trattamento farmacologico.

Eleanor Longden aderisce alla tipica antinosografia del pensiero debole che non riconosce concetti universali come quella di “schizofrenia”, alla cosiddetta postpsichiatria che ha il suo principale esponente in Pat Bracken psichiatra e filosofo inglese. Quest’ultimo ritiene che sia possibile una buona pratica della medicina nel campo della salute mentale senza considerare il problema della diagnosi come fondamentale.
Mentre l’antipsichiatria, con Laing e Cooper, metteva in discussione la psicopatologia classica opponendo ad essa una visione alternativa, la psichiatria postmoderna rappresenta un elemento di corrosione “liquido” della pratica e della teoria della psichiatria attuale in tutte le sue declinazioni. Apparentemente si riconosce l’esistenza e l’importanza di quest’ultima ma sostanzialmente si svuotano di significato le categorie che le appartengono: il trattamento della malattia mentale potrebbe infatti avvenire anche al di fuori di un impostazione medica essendo effettuato da persone senza nessun altro requisito che la propria personale esperienza.

Quello delle “voci” è un esempio paradigmatico: sentire le voci non solo non sarebbe malattia ma addirittura potrebbe costituire un punto di svolta per sviluppare nuove attitudini e competenze. In Italia, Cristina Contini testimonia un’esperienza analoga a quella di Eleanor Longden. La donna originaria di Modena ha avuto una vita caratterizzata da quelle che lei ritiene percezioni extrasensoriali. All’età di 19 anni, a seguito di una forte emorragia che la riduce in coma per l’emofilia dopo un intervento chirurgico, si amplificano in lei la “chiaroudienza” e la “chiaropercezione”.
Frequenta seminari in Galles per prendere consapevolezza dei suoi pieni doni spirituali attraverso l’insegnamento dei medium inglesi. Partecipa a convegni per aiutare persone colpite da lutti e tiene seminar! di meditazione guidata come crescita interiore. Presta la sua opera nella ricerca di persone disperse e si reca negli ospedali per comunicare con ragazzi in coma. È presidentessa dell’associazione Udire le voci che propone un iter formativo per psicologi e psichiatri, assistenti sociali in virtù di una professionalità acquisita sul campo. Afferma la donna: «Sento le voci da oltre 25 anni e dapprima le ho anche subite, benché per breve tempo [24 ore al giorno per tre anni]. Poi ne ho cercato il senso, la provenienza. Mi sono posta mille domande cui, purtroppo, a suo tempo, non sono riuscita a trovare né sui libri né su internet il materiale che desse una risposta circa un orientamento o un ridimensionamento del fenomeno. (.) Da sola ho compiuto un silenzioso percorso in totale autonomia in cui il chiedermi PERCHE’ SENTO LE VOCI è stato sostituito con CHE SENSO HA LA MIA VITA CON LE VOCI».
Il caso Contini è analizzato nel libro “Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico” (Il mulino) di Laura Bonica e Mario Cardano. Il mutamento biografico di Cristina segna un passaggio dallo “stigma” costituito dalla allucinazioni auditive al “carisma”, alla vocazione e al servizio in quanto «ambasciatrice che Dio ha scelto sulla terra».

Anche la Longden si presenta come una persona speciale dotata di un carisma comunicativo che però parla un linguaggio altamente professionale sotto il profilo psicologico e psichiatrico, mentre Cristina Contini ha dei riferimenti culturali generici e ispirati al buon senso comune. Entrambe testimoniano che gli assunti della psichiatria organicistica sono erronei: fenomeni come i deliri e le allucinazioni anche se di primo acchito sembrano incomprensibili, come sosteneva Jaspers, in realtà possono, attraverso un lavoro di elaborazione, acquisire un senso.
Essi comunque non avrebbero significato se fossero considerati come il risultato di un “processo organico” di una rottura nella “continuità biologica della vita” indipendente dai fattori sociali e culturali. Il minus, il vulnus che dà luogo ad un processo psicopatologico, che non necessariamente va considerato organico, innesca una reazione di difesa e di autoriparazione: la persona cerca di inglobare nel proprio vissuto esistenziale ciò che appare come un vero e proprio corpo estraneo. Gli esiti di questo confronto sono molteplici e non necessariamente infausti a seconda dei contesti ideologici e religiosi e della capacità del singolo di mettere in moto un iter “terapeutico”, più o meno solitario, che è alla base di un mutamento biografico.

Sia Eleanor Longden che Cristina Contini sviluppano, anche se con tagli diversi, quella che potremmo definire “la sindrome di Giovanna d’Arco”. Le voci arrivano a comunicare una verità che alla base di un impegno sociale e motivano una missione che ha un significato di riscatto e di redenzione.
«Ero nel tredicesimo anno della mia vita, quando Dio mandò una voce per guidarmi. Dapprima rimasi spaventata: ‘Sono una povera ragazza che non sa né guerreggiare né filare’ risposi. Ma l’angelo mi raccontò che pietà fosse il regno di Francia e mi disse: ‘Verranno a te Santa Caterina e Santa Margherita. Opera come ti consigliano, perché loro sono mandate per consigliarti e guidarti e tu crederai a quanto esse ti diranno». Così racconta Govanna d’Arco.

Eleanor Longden, nella sua missione di rivelare nuove verità sulla realtà umana, fallisce là dove vuole sostenere che la schizofrenia non esiste: un’affermazione del genere per avere un minimo di credibilità dovrebbe essere sostenuta da una accurata ricostruzione storica ed analisi psicopatologica e non basata solo sulla critica dei presupposti organicistici e su un’ esperienza personale per quanto pregnante possa essere.

Anche Laing e Cooper sostennero una tesi simile ma nelle loro biografie riappare proprio quel monstrum della malattia mentale che essi avevano voluto estromettere dalla loro pratica clinica come si evince da quanto racconta Adrian Laing nella sua ricostruzione della figura del padre Ronald (R.D. Laing. A biography). Quest’ultimo andò incontro a un vero e proprio episodio psicotico (un anno passato in meditazione con un guru in India), qualcosa di diverso da una depressione, dopo il quale egli assistette al fallimento drammatico della propia vita professionale e familiare. Cancellare cento anni di ricerche psicopatologiche basate su di una casistica enorme non può essere fatto a cuor leggero e non è esente da gravi conseguenze.
Abolire le categorie classiche della psichiatria per cadere nelle braccia dello spiritualismo, della parapsicologia, della new age, per non dire della filosofia di Heidegger, nazista e psicotico lui stesso, non so se si possa ritenere un passo in avanti. Certo bisogna delineare una nuova concezione della schizofrenia che a quanto pare, è una malattia che è affrontabile con la psicoterapia soprattutto in quelle forme che non siano rese croniche da trattamenti farmacologici erronei o da preconcetti di incurabilità che la trasformino in uno stigma. Questo è quanto il sottoscritto con un gruppo di psichiatri della rivista scientifica “Il sogno della farfalla” cerchiamo di fare sulla base della teoria della nascita di Massimo Fagioli, portando avanti un progetto di ricerca che ha già prodotto contributi significativi che sono già stati e che verranno prossimamente pubblicati.

Sul piano della prassi terapeutica molti principi di quella strategia razionale che gli aderenti all’HVM (movimento degli uditori di voci) suggeriscono come strumento per affrontare le “voci” per noi sono da decenni delle ovvietà: è chiaro che la psicoterapia deve mirare a dare un senso a qualunque manifestazione sintomatologica o comportamentale di colui che noi continuiamo a considerare un paziente.
Però è necessario un quadro di riferimento concettuale, una conoscenza dei processi non coscienti, che ci consenta di distinguere le allucinazioni dalle immagini, dalle visioni, dalle audizioni in cui sia presente un contenuto di fantasia. Si tratta di esperienze apparentemente simili ma sostanzialmente diverse che possono coesistere od addirittura alternarsi ma che si deve essere in grado di separare: confondere le allucinazioni coi sogni o con l’immaginazione creativa, “l’immagine inconscia non onirica”, sarebbe un errore grave che più che farci progredire ci riporterebbe a due secoli fa, alle affermazioni di Esquirol riprese pedissequamente da Freud.

Ora la mentalità postmoderna, il pensiero debole che aspira a diventare postpsichiatrico non fa altro che riciclare vecchie concezioni contaminandole, ibridandole e spacciandole per novità che sono dei “fakes”: questi ultimi proliferano sul terreno in decomposizione della psichiatria del DSM-IV e V. Non a caso Allen Frances, chairman della task force del DSM-IV, dialoga con Eleanor Longden e ne subisce il fascino mediatico. Afferma che loro due sono likeminded, la pensano allo stesso modo. Nel libro Saving normal (2013), contro il furor diagnosticandi del DSM-V lo psichiatra americano sostiene che la schizofrenia non è una entità patologica “discreta” cioè definita. La schizofrenia sarebbe un solo un costrutto che ha un’utilità pratica, una pura convenzione. La distanza da Pat Bracken è solo nominale.
Quest’ultimo poi rilascia delle dichiarazioni che alludono ad idee che a noi sembrano note da sempre: «La mente – scrive – non è semplicemente un altro organo del corpo. È impossibile comprendere la malattia mentale senza comprendere le esperienze, i contenuti le relazioni ed i valori della persona e del suo contesto sociale. Un approccio puramente medico che funziona bene in cardiologia o nel campo della pneumologia è incompleto per la psichiatria. È nostro compito sviluppare un discorso medico che prenda una strada più larga».

Come dire che si scopre l’acqua calda, come se la prassi di Massimo Fagioli e del gruppo di psichiatri che si riconosce nella sua teoria non fosse esistito negli ultimi quarant’anni e la strada più larga non fosse proprio quella dell’Analisi collettiva. Ora nel campo della scienza l’ignoranza ed il non sapere, o il far finta di non sapere, è sempre colpevole.
La psichiatria postmoderna non solo è pertanto fuori dalla modernità ma anche dalla storia: essa è una delle tante schegge di quella deflagrazione catastrofica in cui sembra essere precipitata, secondo Allen Frances la psichiatria “moderna” asservita alla tecnologia farmaceutica ed al miraggio delle neuroscienze ed alla loro pretesa, che dovrà ancora molto attendere, di soppiantare la psicopatologia. Come afferma Frances proprio nel suo ultimo comemnto pubblicato in queste ore sull’Huffingtonpost Science: «Passeranno probabilmente molte decadi prima che le neuroscienze possano avere un significativo impatto sulla pratica della psichiatria. La stupefacente complessità del funzionamento cerebrale continuerà a mettere in scacco qualunque facile e frettolosa risposta».

Articolo originale pubblicato dallo psichiatra Domenico Fargnoli sul suo sito domenicofargnoli.com
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Domenico Fargnoli
martedì 22 ottobre 2013 11:22

Dalla storia di Eleanor Longden e Cristina Contini, i tanti perché del fallimento della psichiatria organicista e dell’antipsichiatria.

Eleanor Longden è una psicologa inglese che fa parte del Comitato internazionale per la revisione critica del DSM-V. Ha una storia personale molto singolare in quanto ha subito, all’età di quattro anni un abuso sessuale da parte di un gruppo di pedofili sadici. Come racconta nella sua biografia ha sviluppato in conseguenza di ciò, un falso sé che le è servito a mascherare un evento dissociativo.

Babylonpost - La sindrome di Giovanna D'ArcoA vent’anni ha cominciato a sentire delle voci: è stata ricoverata e le è stata fatta una diagnosi di schizofrenia e trattata con antipsicotici. Aderisce al HVM (Hearing voices movement) un’organizzazione internazionale di coloro che, come lei, pur sentendo le voci, ne sono orgogliosi e non si ritengono malati. Segue un percorso di recovery, di riabilitazione che non è una therapy, una cura in senso medico, nell’ambito di un orientamento detto post psichiatrico o post moderno ispirato alla filosofia di Heidegger. Nonostante la diagnosi ed il trattamento medico, si laurea e specializza in psicologia clinica, mentre le voci divenute amiche, le suggeriscono le risposte agli esami. Nel 2013 partecipa al TED (una prestigiosa sessione di conferenze californiane) e il suo video online viene cliccato un milione di volte.
Nel suo libro “Learnig from the voices in my head” si legge che il concetto di schizofrenia, identificata con una malattia neurodegenerativa non ha alcuna validità ed è privo di senso. Il DSM-V sembra darle ragione: non c’è accordo fra gli psichiatri che cambiano continuamente impostazione. I deliri bizzarri e l’udire e conversare con le voci ( i noti sintomi di primo rango secondo Kurt Schneider) sono stati declassati e non sono più gli indicatori principali di malattia. I sottotipi (simplex, ebefrenico, paranoide e catatonico) che risalgono alla famosa monografia del 1911 di Eugen Bleuler, “Dementia praecox od il gruppo delle schizofrenie”, sono stati aboliti perché ritenuti inutili ai fini di quello che sovente è solo un trattamento farmacologico.

Eleanor Longden aderisce alla tipica antinosografia del pensiero debole che non riconosce concetti universali come quella di “schizofrenia”, alla cosiddetta postpsichiatria che ha il suo principale esponente in Pat Bracken psichiatra e filosofo inglese. Quest’ultimo ritiene che sia possibile una buona pratica della medicina nel campo della salute mentale senza considerare il problema della diagnosi come fondamentale.
Mentre l’antipsichiatria, con Laing e Cooper, metteva in discussione la psicopatologia classica opponendo ad essa una visione alternativa, la psichiatria postmoderna rappresenta un elemento di corrosione “liquido” della pratica e della teoria della psichiatria attuale in tutte le sue declinazioni. Apparentemente si riconosce l’esistenza e l’importanza di quest’ultima ma sostanzialmente si svuotano di significato le categorie che le appartengono: il trattamento della malattia mentale potrebbe infatti avvenire anche al di fuori di un impostazione medica essendo effettuato da persone senza nessun altro requisito che la propria personale esperienza.

Quello delle “voci” è un esempio paradigmatico: sentire le voci non solo non sarebbe malattia ma addirittura potrebbe costituire un punto di svolta per sviluppare nuove attitudini e competenze. In Italia, Cristina Contini testimonia un’esperienza analoga a quella di Eleanor Longden. La donna originaria di Modena ha avuto una vita caratterizzata da quelle che lei ritiene percezioni extrasensoriali. All’età di 19 anni, a seguito di una forte emorragia che la riduce in coma per l’emofilia dopo un intervento chirurgico, si amplificano in lei la “chiaroudienza” e la “chiaropercezione”.
Frequenta seminari in Galles per prendere consapevolezza dei suoi pieni doni spirituali attraverso l’insegnamento dei medium inglesi. Partecipa a convegni per aiutare persone colpite da lutti e tiene seminar! di meditazione guidata come crescita interiore. Presta la sua opera nella ricerca di persone disperse e si reca negli ospedali per comunicare con ragazzi in coma. È presidentessa dell’associazione Udire le voci che propone un iter formativo per psicologi e psichiatri, assistenti sociali in virtù di una professionalità acquisita sul campo. Afferma la donna: «Sento le voci da oltre 25 anni e dapprima le ho anche subite, benché per breve tempo [24 ore al giorno per tre anni]. Poi ne ho cercato il senso, la provenienza. Mi sono posta mille domande cui, purtroppo, a suo tempo, non sono riuscita a trovare né sui libri né su internet il materiale che desse una risposta circa un orientamento o un ridimensionamento del fenomeno. (.) Da sola ho compiuto un silenzioso percorso in totale autonomia in cui il chiedermi PERCHE’ SENTO LE VOCI è stato sostituito con CHE SENSO HA LA MIA VITA CON LE VOCI».
Il caso Contini è analizzato nel libro “Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico” (Il mulino) di Laura Bonica e Mario Cardano. Il mutamento biografico di Cristina segna un passaggio dallo “stigma” costituito dalla allucinazioni auditive al “carisma”, alla vocazione e al servizio in quanto «ambasciatrice che Dio ha scelto sulla terra».

Anche la Longden si presenta come una persona speciale dotata di un carisma comunicativo che però parla un linguaggio altamente professionale sotto il profilo psicologico e psichiatrico, mentre Cristina Contini ha dei riferimenti culturali generici e ispirati al buon senso comune. Entrambe testimoniano che gli assunti della psichiatria organicistica sono erronei: fenomeni come i deliri e le allucinazioni anche se di primo acchito sembrano incomprensibili, come sosteneva Jaspers, in realtà possono, attraverso un lavoro di elaborazione, acquisire un senso.
Essi comunque non avrebbero significato se fossero considerati come il risultato di un “processo organico” di una rottura nella “continuità biologica della vita” indipendente dai fattori sociali e culturali. Il minus, il vulnus che dà luogo ad un processo psicopatologico, che non necessariamente va considerato organico, innesca una reazione di difesa e di autoriparazione: la persona cerca di inglobare nel proprio vissuto esistenziale ciò che appare come un vero e proprio corpo estraneo. Gli esiti di questo confronto sono molteplici e non necessariamente infausti a seconda dei contesti ideologici e religiosi e della capacità del singolo di mettere in moto un iter “terapeutico”, più o meno solitario, che è alla base di un mutamento biografico.

Sia Eleanor Longden che Cristina Contini sviluppano, anche se con tagli diversi, quella che potremmo definire “la sindrome di Giovanna d’Arco”. Le voci arrivano a comunicare una verità che alla base di un impegno sociale e motivano una missione che ha un significato di riscatto e di redenzione.
«Ero nel tredicesimo anno della mia vita, quando Dio mandò una voce per guidarmi. Dapprima rimasi spaventata: ‘Sono una povera ragazza che non sa né guerreggiare né filare’ risposi. Ma l’angelo mi raccontò che pietà fosse il regno di Francia e mi disse: ‘Verranno a te Santa Caterina e Santa Margherita. Opera come ti consigliano, perché loro sono mandate per consigliarti e guidarti e tu crederai a quanto esse ti diranno». Così racconta Govanna d’Arco.

Eleanor Longden, nella sua missione di rivelare nuove verità sulla realtà umana, fallisce là dove vuole sostenere che la schizofrenia non esiste: un’affermazione del genere per avere un minimo di credibilità dovrebbe essere sostenuta da una accurata ricostruzione storica ed analisi psicopatologica e non basata solo sulla critica dei presupposti organicistici e su un’ esperienza personale per quanto pregnante possa essere.

Anche Laing e Cooper sostennero una tesi simile ma nelle loro biografie riappare proprio quel monstrum della malattia mentale che essi avevano voluto estromettere dalla loro pratica clinica come si evince da quanto racconta Adrian Laing nella sua ricostruzione della figura del padre Ronald (R.D. Laing. A biography). Quest’ultimo andò incontro a un vero e proprio episodio psicotico (un anno passato in meditazione con un guru in India), qualcosa di diverso da una depressione, dopo il quale egli assistette al fallimento drammatico della propia vita professionale e familiare. Cancellare cento anni di ricerche psicopatologiche basate su di una casistica enorme non può essere fatto a cuor leggero e non è esente da gravi conseguenze.
Abolire le categorie classiche della psichiatria per cadere nelle braccia dello spiritualismo, della parapsicologia, della new age, per non dire della filosofia di Heidegger, nazista e psicotico lui stesso, non so se si possa ritenere un passo in avanti. Certo bisogna delineare una nuova concezione della schizofrenia che a quanto pare, è una malattia che è affrontabile con la psicoterapia soprattutto in quelle forme che non siano rese croniche da trattamenti farmacologici erronei o da preconcetti di incurabilità che la trasformino in uno stigma. Questo è quanto il sottoscritto con un gruppo di psichiatri della rivista scientifica “Il sogno della farfalla” cerchiamo di fare sulla base della teoria della nascita di Massimo Fagioli, portando avanti un progetto di ricerca che ha già prodotto contributi significativi che sono già stati e che verranno prossimamente pubblicati.

Sul piano della prassi terapeutica molti principi di quella strategia razionale che gli aderenti all’HVM (movimento degli uditori di voci) suggeriscono come strumento per affrontare le “voci” per noi sono da decenni delle ovvietà: è chiaro che la psicoterapia deve mirare a dare un senso a qualunque manifestazione sintomatologica o comportamentale di colui che noi continuiamo a considerare un paziente.
Però è necessario un quadro di riferimento concettuale, una conoscenza dei processi non coscienti, che ci consenta di distinguere le allucinazioni dalle immagini, dalle visioni, dalle audizioni in cui sia presente un contenuto di fantasia. Si tratta di esperienze apparentemente simili ma sostanzialmente diverse che possono coesistere od addirittura alternarsi ma che si deve essere in grado di separare: confondere le allucinazioni coi sogni o con l’immaginazione creativa, “l’immagine inconscia non onirica”, sarebbe un errore grave che più che farci progredire ci riporterebbe a due secoli fa, alle affermazioni di Esquirol riprese pedissequamente da Freud.

Ora la mentalità postmoderna, il pensiero debole che aspira a diventare postpsichiatrico non fa altro che riciclare vecchie concezioni contaminandole, ibridandole e spacciandole per novità che sono dei “fakes”: questi ultimi proliferano sul terreno in decomposizione della psichiatria del DSM-IV e V. Non a caso Allen Frances, chairman della task force del DSM-IV, dialoga con Eleanor Longden e ne subisce il fascino mediatico. Afferma che loro due sono likeminded, la pensano allo stesso modo. Nel libro Saving normal (2013), contro il furor diagnosticandi del DSM-V lo psichiatra americano sostiene che la schizofrenia non è una entità patologica “discreta” cioè definita. La schizofrenia sarebbe un solo un costrutto che ha un’utilità pratica, una pura convenzione. La distanza da Pat Bracken è solo nominale.
Quest’ultimo poi rilascia delle dichiarazioni che alludono ad idee che a noi sembrano note da sempre: «La mente – scrive – non è semplicemente un altro organo del corpo. È impossibile comprendere la malattia mentale senza comprendere le esperienze, i contenuti le relazioni ed i valori della persona e del suo contesto sociale. Un approccio puramente medico che funziona bene in cardiologia o nel campo della pneumologia è incompleto per la psichiatria. È nostro compito sviluppare un discorso medico che prenda una strada più larga».

Come dire che si scopre l’acqua calda, come se la prassi di Massimo Fagioli e del gruppo di psichiatri che si riconosce nella sua teoria non fosse esistito negli ultimi quarant’anni e la strada più larga non fosse proprio quella dell’Analisi collettiva. Ora nel campo della scienza l’ignoranza ed il non sapere, o il far finta di non sapere, è sempre colpevole.
La psichiatria postmoderna non solo è pertanto fuori dalla modernità ma anche dalla storia: essa è una delle tante schegge di quella deflagrazione catastrofica in cui sembra essere precipitata, secondo Allen Frances la psichiatria “moderna” asservita alla tecnologia farmaceutica ed al miraggio delle neuroscienze ed alla loro pretesa, che dovrà ancora molto attendere, di soppiantare la psicopatologia. Come afferma Frances proprio nel suo ultimo comemnto pubblicato in queste ore sull’Huffingtonpost Science: «Passeranno probabilmente molte decadi prima che le neuroscienze possano avere un significativo impatto sulla pratica della psichiatria. La stupefacente complessità del funzionamento cerebrale continuerà a mettere in scacco qualunque facile e frettolosa risposta».

Articolo originale pubblicato dallo psichiatra Domenico Fargnoli sul suo sito domenicofargnoli.com
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Nexus – “Sentire la Voci”: da “patologia” a “normalità”?

Una notizia molto importante ma non sufficientemente divulgata dai media riguarda le persone che “sentono le voci” – o Uditori di Voci. Finora questo fenomeno era di per sé sufficiente perché una persona fosse diagnosticata come schizofrenica, secondo i criteri del DSM IV, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali che fa da guida per la diagnosi delle “malattie psichiatriche”. Metto le virgolette perché già in altre occasioni il Manuale etichettava come patologiche situazioni che in realtà appartengono all’anima e alla realtà umana1.
Questo sviluppo positivo – per ora soltanto annunciato2– aprirà modalità nuove di intervento rispetto alle persone che vivono gli aspetti disagevoli di questo fenomeno. Il Mondo degli Uditori di Voci è vasto e variegato; il tema spaventa ed è caricato da uno stigma profondissimo, che ha inciso sulla visione che la collettività ha di queste persone e che deve essere affrontato e “sciolto”, se vogliamo che questo colpo di penna scientifico che elimina le “allucinazioni uditive” dalla diagnosi diventi poi una vera, nuova modalità di osservare il fenomeno e di intervenirvi con nuovi strumenti ma, soprattutto, con occhi nuovi e cuore aperto.

Cosa vuol dire sentire le voci
Prova a immaginare: attorno a te il silenzio pacato, avvolgente; la calma, il sonno che ristora. Ritrova quella sensazione di benessere che viene dopo una notte di riposo vero e rigenerante e, ora,  prova a immaginare che non ti sia più possibile. Che un mondo di voci ti si accalchi intorno, voci che ti sembrano vere, che risuonano alle tue orecchie altrettanto reali di un amico o di un nemico. Non puoi ridurne il volume, non sai come farle tacere, allontanarle. Questo è il mondo degli Uditori di Voci. Mondo circondato da un lato da uno stigma pesantissimo, quando le voci sono negative, distruttive, invalidanti; o da un senso di diffidenza o di grande fascinazione quando le voci sono di entità spirituali, di trapassati, di qualcosa che insomma pensiamo possa anche esistere ma che, a chi non sente (o non vede) è precluso. Giudizi e sensazioni estreme quindi, che impediscono la pacatezza di una valutazione realistica del fenomeno. Fenomeno in aumento, in particolare tra i giovani, e probabilmente causa – spesso taciuta se non anche ignorata – di tanti improvvisi suicidi o atti di autolesionismo. Si è buttato dalla finestra. Ma voleva veramente uccidersi? O voleva soltanto poter gustare il silenzio? Si taglia, si ferisce, si brucia con le sigarette… si detesta? O forse si dà uno stimolo, doloroso è vero, ma che per qualche istante impedisce di sentire le voci?

I “segnali” che accompagnano il processo
Quando una persona inizia a sentire le Voci, soprattutto se sono negative, sminuenti, o se sono tante, tende in genere a chiudersi in sé stessa. La chiusura riguarda la famiglia, gli amici; si può smettere di uscire di casa, chiudersi nella propria camera, magari ascoltando musica a tutto volume (per non sentire le voci); alcune persone cominciano ad avere comportamenti strani che sono in realtà ordini dati dalle voci cui la persona non riesce a dire di no. Oppure iniziano a “parlare da sole”, in realtà rispondendo a questi colloqui interni. Altre persone diventano violente, aggrediscono i famigliari, perché così la voce sta imponendo; la lotta interna è faticosa e devastante. A volte poi la persona pensa che si tratti di voci reali e diventa quindi sospettosa verso il mondo.
Quando le voci sono positive, consolatorie, possono anch’esse provocare all’inizio paura e disagio, salvo poi diventare fonte di positività, apprendimento, saggezza. Se tuttavia la persona non riesce a gestire la presenza delle voci positive, e quindi a farle tacere quando ne ha bisogno, finirà anch’essa per sentirsi frustrata e arrabbiata.
Insomma, che siano distruttive o costruttive, le Voci possono diventare una presenza talmente pressante, coinvolgente, da devastare la vita della persona che le subisce.

Un esempio per tutti la diagnosi di omosessualità come disturbo CTR che fu tolta dalla edizione ……. Del Manuale, consentendo così una “guarigione di massa” di migliaia di persone! Resta il fatto che lo stigma, i pregiudizi riguardo all’omosessualità sono ancora fortissimi, ma almeno si è allontanata la visione patologica.
La nuova Edizione del Manuale uscirà nel maggio 2013

Le possibili cause scatenanti
Vorrei sottolineare che l’emergere di una voce non significa che la persona non sia mentalmente sana e vi è un’ampia gamma di situazioni in cui è possibile sentire delle voci di un qualche tipo senza sentirsene particolarmente destabilizzati.
Vi sono però eventi più stressanti: la morte di una persona cara (la voce può essere quella del defunto), periodi di solitudine reale o percepita, interventi chirurgici, una bocciatura a scuola, la separazione dei genitori, cambiare città e ambiente, violenze, abusi o abbandoni. Gli eventi possono essere più o  meno gravi, visti da fuori, ma l’entità dello stress dipende da diversi fattori, l’età della persona, la sua sensibilità, la sua maturità emotiva, lo stato di salute, il contesto culturale e sociale.
Vediamo in ordine crescente di complessità:
Le esperienze ipnagogiche: sono i momenti tra la veglia e il sonno. Si possono sentire suoni, musiche, voci familiari, il proprio nome detto ad alta voce. A volte l’esperienza è cosi vivida che la persona si sveglia totalmente. Vi sono studi che mostrano che circa il 70% degli adulti ha avuto esperienze di questo tipo3.
I sogni: molte volte le persone riportano esperienze oniriche in cui un personaggio del sogno parla, o una voce fuori campo dice qualcosa di importante. Ci sono persone che hanno sogni prevalentemente uditivi.
Nell’infanzia, “l’amico immaginario”: si tratta dell’esperienza, comune tra i bambini, di giocare con un compagno immaginario, specialmente negli anni prescolari. In genere queste immagini scompaiono con la scuola, ma in certi casi vanno avanti anche nell’adolescenza e nell’età adulta. Spesso il fenomeno è accompagnato dal sentire la voce dell’amico, come se fosse reale.
La perdita di una persona cara: il fenomeno di sentirne la voce, a volte accompagnato anche dalla percezione della presenza del defunto, è più frequente nei primi mesi dopo la scomparsa4. In genere si tratta di un’esperienza consolatoria e di sostegno. Tuttavia in genere le persone non ne parlano, perché hanno paura delle critiche o della derisione degli altri – o di essere considerate mentalmente fragili.
I traumi, lo stress: come detto, l’entità dell’evento è legata anche alla sensibilità particolare della persona. Un evento drammatico che è alla base di molte esperienze legate alle voci è l’abuso, o comunque una infanzia di abbandono, deprivazione affettiva, stress emozionale. La privazione per lungo tempo di cibo, sonno, compagnia è anch’essa fonte di fenomeni uditivi.
Stati di malattia, medicine: una febbre alta può essere accompagnata da sintomi uditivi; l’iperventilazione può scatenare questa esperienza. Molti farmaci hanno tra i loro effetti collaterali allucinazioni di vario tipo, tra cui queste delle voci5.
Esperienze con le droghe: le sostanze psichedeliche possono attivare diversi fenomeni allucinatori, tra cui il sentire le voci. In molte culture tradizionali, l’utilizzo di sostanze psicotrope per attivare esperienze trascendentali o di guarigione era condotto all’interno di un percorso iniziatico, guidato da uno sciamano esperto, e contenuto all’interno di una comunità sociale che ne condivideva il senso. Nella nostra società l’utilizzo “selvaggio” delle droghe ha creato vasti spazi di esperienze non guidate, non condivise, a rischio quindi di devastare la persona. Anche l’utilizzo della tavoletta “Ouija”6 può attivare il fenomeno delle Voci.
Le “esperienze di pre-morte” (NDE, Near Death Experience). Il fenomeno ha cominciato ad essere studiato dal dottor R. Moody7, negli anni ’70. Più del 40% delle persone che sono “ritornate” dall’esperienza NDE riportano di aver vissuto sentimenti di grande pace, la sensazione di aver viaggiato molto velocemente all’interno di un “tunnel di luce” o comunque verso una luce molto brillante, di aver incontrato persone care, amici o “Esseri di Luce”. Per molti, è stato come se la loro vita fosse scorsa davanti ai loro occhi in pochi istanti. La scelta di “ritornare” è spesso dolorosa, legata a sentimenti di amore verso i propri cari e anche alla consapevolezza di avere la propria missione di vita da completare. Moltissime di queste esperienze sono accompagnate dal sentire delle Voci, che spesso continuano ad essere presenti come guide, nel nuovo percorso che la persona deve affrontare nella vita, profondamente mutata dall’esperienza.
L’ispirazione: che sia creativa o trascendentale, una forte ispirazione può essere accompagnata da percezioni uditive o sensoriali. Il poeta Rilke, l’artista visionario William Blake, il compositore Schumann, sentivano voci creative durante i loro momenti di produzione artistica. Sul fronte dell’esperienza spirituale, della chiamata vocazionale, possiamo ricordare il Mahatma Ghandi, che per tutta la sua vita si è affidato a una guida spirituale di cui sentiva la voce.

Personaggi famosi che sentivano le voci
Nella lunga storia dell’umanità moltissimi personaggi famosi erano uditori di voci: in campo religioso, Mosè, Gesù, Santa Teresa, San Francesco, Sant’Agostino, Giovanna d’Arco, San Paolo, Santa Ildegarda di Bingen, Maometto;  in campo filosofico e psicologico, Socrate, Platone, Freud, Jung, Swedenborg, Ghandi, Elisabeth Kübler-Ross; in campo artistico, Rainer M. Rilke, Andy Warhol, Schumann, Vincent Van Gogh, Ligabue. Ancora, lo statista Wiston Churchill e per finire “atterrando” ai tempi nostri, il calciatore Zidane, Anthony Hopkins, Penelope Cruz.

Come è stato affrontato finora
Nella nostra cultura, il sentire le voci è stato collocato come sintomo sicuro di schizofrenia o disturbo mentale. Disturbo visto come cronico, quindi da trattare con un approccio di semplice contenimento, che va nella direzione dell’ospedalizzazione, del trattamento con il farmaco – da prendere a vita, tanto non vi è possibilità di risoluzione e in ogni caso i rischi di ricaduta sono certi. Questa visione sconfortante ha contribuito ad alimentare il pesantissimo stigma che circonda questo disagio, facendo sì che molte persone tacciano, rischiando in tal modo l’aggravarsi di un sintomo che potrebbe essere alleviato in tempi molto più rapidi e con minore sofferenza. Certamente, finché il sintomo è considerato diagnostico di schizofrenia, la voglia di “uscire allo scoperto” per farsi trattare è rara!
“Il volto del dottore divenne serissimo quando menzionai la voce, e insistette nel segnalarmi a quello che definì uno “specialista” ospedaliero, che in realtà si rivelò essere una psichiatra. Quello che io volevo e mi serviva era parlare con qualcuno delle mie sensazioni d’ansia e scarsa autostima, che provavo sin dal mio arrivo al college. Ma la psichiatra puntò sull’enfatizzazione dell’importanza della voce, come se stessimo discutendo di una formula matematica secondo la quale avere quel tipo di esperienza significasse automaticamente che io fossi folle. (…) All’improvviso, non ero più una giovane donna istruita della classe media con un futuro roseo davanti a me, ma una paziente mentale potenzialmente pericolosa. Percependo lo stigma correlato a ciò, non dissi a nessuno di aver iniziato colloqui settimanali con un’infermiera psichiatrica, oltre ad appuntamenti mensili con la psichiatra. Durante questi colloqui, cercai ancora di esprimere la mia ricerca di un’identità da quando ero partita da casa, ma queste normali sensazioni di insicurezza adolescenziale furono subito interpretate come sintomi di una mente malata. Sebbene non credessi di essere matta, mi fidavo – come farebbe chiunque – delle opinioni mediche della psichiatra anziché del mio istinto. Al mio secondo colloquio con la psichiatra, due mesi dopo, essa suggerì di farmi ricoverare in ospedale “solo per tre giorni” per sottopormi ad esami. (…)
Nel frattempo, alla voce della mia mente, quella tranquilla, se ne aggiunse un’altra più stridula e critica. Nel corso delle settimane successive, il numero delle voci, a volte maschili e altre femminili e tutte molte più minacciose, andarono aumentando fino a diventare dodici. Di tutte queste, la voce più dominante, e demoniaca, aveva il tono minaccioso di un uomo. (…) Pensai che fosse il risultato dei farmaci che prendevo e della mia lunga e stressante degenza in ospedale. Ma uno psichiatra mi convinse che era un altro sintomo della schizofrenia paranoica.(…) Dopo tre mesi d’ospedale, ritornai al college: una studentessa molto diversa e molto più disturbata da quella che ero stata. Come risultato degli effetti collaterali dei farmaci, il mio peso era balzato da 57 a 95 chili. Inoltre ero affetta da un tremore costante e camminavo ondeggiando. Ancora oggi non so come gli altri studenti avevano saputo dov’ero stata, ma in qualche modo era successo. Dopo una settimana dal mio ritorno, la porta della mia stanza del pensionato venne deturpata da graffiti e qualcuno sputò al mio passaggio mentre andavo a lezione.
(…) Al mio successivo colloquio con la psichiatra dissi che pensavo che i farmaci rendessero peggiori le mie voci e chiesi se potevo smettere di assumerli; lei insistette che dovevo continuare. Quando ammisi di avere pensieri suicidali in conseguenza di come venivo trattata nel college, mi rimandò in ospedale per altre sette settimane. (…). Nel corso dei mesi estivi, mi portarono al servizio psichiatrico della zona, a Bradford. Il mio primo appuntamento fu con uno psichiatra di nome Pat Bracken. Mi chiese perché mi fossi rivolta a lui e io risposi sinceramente: “Ho 18 anni e sono una schizofrenica paranoica”. Successivamente, durante la cura, Pat mi disse che la mia risposta era la dichiarazione più sconsolata che avesse sentito da una ragazza, ma tutto ciò che disse quella volta fu: “Mi dica cosa pensa che potrebbe aiutarla”. Gli chiesi di ridurre gli psicofarmaci. Con mio grande stupore, fu subito d’accordo. Parlammo delle mie voci ed egli mi suggerì di smettere di considerarle un sintomo di malattia mentale e di iniziare a vederle come un modo per capire me stessa.(…) Nel corso dei sette mesi successivi, io e Pat ci siamo incontrati a intervalli regolari settimanali, riducendo gradualmente i farmaci sino ad eliminarli. Durante tutto questo tempo, scoprii che se affrontavo le voci, esse diventavano meno frequenti. Imparai anche a sfidare la mia voce più minacciosa, rifiutandomi di fare ciò che voleva facessi e dicendo a me stessa che non era altro che un simbolo della mia stessa rabbia esteriorizzata.(…) Da tre anni sono in buona salute, felice e perfettamente stabilizzata. La schizofrenia è un’etichetta spaventosa e fuorviante che stigmatizza le persone. Mentre i dottori insistono nel dire che sono stata schizofrenica, non so se questa etichetta mi appartenesse veramente.(…) Spesso mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me se non avessi incontrato uno psichiatra che ha capito come curarmi. Se adesso sento una voce non sono più spaventata, poiché capisco perché mi succede. Per mia madre, il campanello d’allarme dello stress è un attacco di emicrania. Per me, sono le voci”8.

Ospedalizzazione, psichiatria, farmaci: queste sono state finora le soluzioni adottate. I risultati, potete immaginare, sono stati scarsi per mille evidenti ragioni, prima tra tutte il fatto che la diagnosi stessa era “a vita”. Che tipo di sforzo, di impegno di guarigione può mettere un medico che è stato condizionato a pensare in termini così rassegnati, verso un fenomeno che effettivamente, quando è grave, desta sconforto e paura? Oltre a questi aspetti drammatici sul piano della vita della persona, vi sono anche i costi economici, che sono elevatissimi.
Tuttavia anche in queste condizioni non sono pochi i movimenti che hanno iniziato a prendere la distanza dallo stigma e a cercare di trovare formule nuove, più umane e coraggiose, di affrontare il problema9. Se le voci emergono dopo un trauma, la cosa logica è chiedersi cosa è rimasto sospeso, inaccudito, non elaborato: come dice Eleanor nella sua testimonianza, è importante iniziare a vederle come un modo per capire noi stessi. La voce è l’espressione di un problema. Il nostro sistema invece sopprime la voce con gli psicofarmaci – cosa che può essere indispensabile in fase acuta, ma che, protratta, elimina il sintomo ma anche … la persona, che non ha più stimoli, risorse, volontà e vita propria. E neppure la possibilità di elaborare il grido disperato di aiuto che la voce rappresenta.

Vivere con le Voci: da sintomi a esperienze
Una premessa è doverosa a questo punto del viaggio: le “voci”, o sé interiori, sono una realtà condivisa della psiche umana. Tutti noi umani siamo “molteplici”: abbiamo aspetti diversi che si muovono dentro di noi, ci sostengono, ci sabotano, ci “parlano” (anche solo nel flusso del pensiero discorsivo)… la differenza è che c’è un “io” che mantiene le fila di queste diverse energie – che possono anche appartenere a piani diversi di realtà.
Se questa visione della molteplicità fosse serenamente condivisa, come sarebbe più facile inquadrare il fenomeno “udire le voci” nella sua realtà!
Una Voce, dunque, è una Parte di noi che porta un messaggio: magari urlato, magari brutale, magari devastante, ma ha a che fare con il trauma subìto, con un’istanza di vita, con un bisogno non percepito. Come affrontare queste emozioni? Come potenziarsi rispetto alle Voci, in modo da creare un “io” più cosciente, più centrato rispetto alle Parti?
Rapidamente, alcuni punti essenziali:
Accettare la realtà delle Voci, imparare ad ascoltarle. Creare una relazione con le Voci è la via più importante per potenziare il “centro” e apprezzare la ricchezza, la complessità, le risorse che le Voci possono offrire. Anche voci che inizialmente si presentano come ostili, nemiche, arrabbiate, possono cambiare nel tempo e diventare più amiche.
Scoprire qual è il messaggio della Voce. Ogni Voce ha una sua visione della realtà, delle sue convinzioni. Ascoltarle con curiosità e mente aperta aiuta a comprenderne la storia, l’origine. Ovviamente questi due punti richiedono di superare la paura delle Voci, e questo richiede l’aiuto di un counselor/ terapista / facilitatore esperto del processo.
Imparare a relazionarsi con la Voce in modi diversi. Se la Voce è aggressiva, anziché arrabbiarsi a propria volta o sentirsi vittima, si può chiedere qual è la ragione di quella rabbia.

Alla luce dei cambiamenti che il nuovo DSM porterà, occorre offrire una maggiore informazione su questo argomento, disimparando quello che è stato insegnato e diffuso da decenni! Questo vale sia per gli operatori di ogni livello, che per le altre persone coinvolte. Studi indicano che circa il 20% degli adolescenti potrebbe soffrire qualche volta di questi fenomeni10; i genitori, gli amici, gli insegnanti debbono sapere che il fenomeno non è necessariamente grave, e che nella maggioranza dei casi si può risolvere con dei colloqui, se l’aiuto giusto arriva ai primi segnali.
Creare gruppi di auto-mutuo-aiuto sia per gli Uditori che per i famigliari è una cosa importantissima che già sta avvenendo in molte zone11.

La nostra vita sul pianeta è troppo breve perché continuiamo a sprecarla tra paure, dissidi, sperpero e divisioni. Anche se questi elementi di paura e di sconforto vengono alimentati in tanti modi, non possiamo dimenticare “chi” siamo; e neppure che gli altri, che condividono questo così breve tempo, sono nostri fratelli, condividono il nostro stesso destino. Forse possiamo cominciare a guardarci negli occhi, almeno ogni tanto, e riconoscere questo viaggio comune, questo comune destino. E forse, allora, diventa più facile riconoscere che tutti, in qualche modo, siamo stati feriti e che tutti, in qualche modo, possiamo essere l’uno per l’altro strumento di guarigione.

Nexus - “Sentire la Voci”: da “patologia” a “normalità”?

Mindly

Nexus – “Sentire la Voci”: da “patologia” a “normalità”?

Una notizia molto importante ma non sufficientemente divulgata dai media riguarda le persone che “sentono le voci” – o Uditori di Voci. Finora questo fenomeno era di per sé sufficiente perché una persona fosse diagnosticata come schizofrenica, secondo i criteri del DSM IV, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali che fa da guida per la diagnosi delle “malattie psichiatriche”. Metto le virgolette perché già in altre occasioni il Manuale etichettava come patologiche situazioni che in realtà appartengono all’anima e alla realtà umana1.
Questo sviluppo positivo – per ora soltanto annunciato2– aprirà modalità nuove di intervento rispetto alle persone che vivono gli aspetti disagevoli di questo fenomeno. Il Mondo degli Uditori di Voci è vasto e variegato; il tema spaventa ed è caricato da uno stigma profondissimo, che ha inciso sulla visione che la collettività ha di queste persone e che deve essere affrontato e “sciolto”, se vogliamo che questo colpo di penna scientifico che elimina le “allucinazioni uditive” dalla diagnosi diventi poi una vera, nuova modalità di osservare il fenomeno e di intervenirvi con nuovi strumenti ma, soprattutto, con occhi nuovi e cuore aperto.

Cosa vuol dire sentire le voci
Prova a immaginare: attorno a te il silenzio pacato, avvolgente; la calma, il sonno che ristora. Ritrova quella sensazione di benessere che viene dopo una notte di riposo vero e rigenerante e, ora,  prova a immaginare che non ti sia più possibile. Che un mondo di voci ti si accalchi intorno, voci che ti sembrano vere, che risuonano alle tue orecchie altrettanto reali di un amico o di un nemico. Non puoi ridurne il volume, non sai come farle tacere, allontanarle. Questo è il mondo degli Uditori di Voci. Mondo circondato da un lato da uno stigma pesantissimo, quando le voci sono negative, distruttive, invalidanti; o da un senso di diffidenza o di grande fascinazione quando le voci sono di entità spirituali, di trapassati, di qualcosa che insomma pensiamo possa anche esistere ma che, a chi non sente (o non vede) è precluso. Giudizi e sensazioni estreme quindi, che impediscono la pacatezza di una valutazione realistica del fenomeno. Fenomeno in aumento, in particolare tra i giovani, e probabilmente causa – spesso taciuta se non anche ignorata – di tanti improvvisi suicidi o atti di autolesionismo. Si è buttato dalla finestra. Ma voleva veramente uccidersi? O voleva soltanto poter gustare il silenzio? Si taglia, si ferisce, si brucia con le sigarette… si detesta? O forse si dà uno stimolo, doloroso è vero, ma che per qualche istante impedisce di sentire le voci?

I “segnali” che accompagnano il processo
Quando una persona inizia a sentire le Voci, soprattutto se sono negative, sminuenti, o se sono tante, tende in genere a chiudersi in sé stessa. La chiusura riguarda la famiglia, gli amici; si può smettere di uscire di casa, chiudersi nella propria camera, magari ascoltando musica a tutto volume (per non sentire le voci); alcune persone cominciano ad avere comportamenti strani che sono in realtà ordini dati dalle voci cui la persona non riesce a dire di no. Oppure iniziano a “parlare da sole”, in realtà rispondendo a questi colloqui interni. Altre persone diventano violente, aggrediscono i famigliari, perché così la voce sta imponendo; la lotta interna è faticosa e devastante. A volte poi la persona pensa che si tratti di voci reali e diventa quindi sospettosa verso il mondo.
Quando le voci sono positive, consolatorie, possono anch’esse provocare all’inizio paura e disagio, salvo poi diventare fonte di positività, apprendimento, saggezza. Se tuttavia la persona non riesce a gestire la presenza delle voci positive, e quindi a farle tacere quando ne ha bisogno, finirà anch’essa per sentirsi frustrata e arrabbiata.
Insomma, che siano distruttive o costruttive, le Voci possono diventare una presenza talmente pressante, coinvolgente, da devastare la vita della persona che le subisce.

Un esempio per tutti la diagnosi di omosessualità come disturbo CTR che fu tolta dalla edizione ……. Del Manuale, consentendo così una “guarigione di massa” di migliaia di persone! Resta il fatto che lo stigma, i pregiudizi riguardo all’omosessualità sono ancora fortissimi, ma almeno si è allontanata la visione patologica.
La nuova Edizione del Manuale uscirà nel maggio 2013

Le possibili cause scatenanti
Vorrei sottolineare che l’emergere di una voce non significa che la persona non sia mentalmente sana e vi è un’ampia gamma di situazioni in cui è possibile sentire delle voci di un qualche tipo senza sentirsene particolarmente destabilizzati.
Vi sono però eventi più stressanti: la morte di una persona cara (la voce può essere quella del defunto), periodi di solitudine reale o percepita, interventi chirurgici, una bocciatura a scuola, la separazione dei genitori, cambiare città e ambiente, violenze, abusi o abbandoni. Gli eventi possono essere più o  meno gravi, visti da fuori, ma l’entità dello stress dipende da diversi fattori, l’età della persona, la sua sensibilità, la sua maturità emotiva, lo stato di salute, il contesto culturale e sociale.
Vediamo in ordine crescente di complessità:
Le esperienze ipnagogiche: sono i momenti tra la veglia e il sonno. Si possono sentire suoni, musiche, voci familiari, il proprio nome detto ad alta voce. A volte l’esperienza è cosi vivida che la persona si sveglia totalmente. Vi sono studi che mostrano che circa il 70% degli adulti ha avuto esperienze di questo tipo3.
I sogni: molte volte le persone riportano esperienze oniriche in cui un personaggio del sogno parla, o una voce fuori campo dice qualcosa di importante. Ci sono persone che hanno sogni prevalentemente uditivi.
Nell’infanzia, “l’amico immaginario”: si tratta dell’esperienza, comune tra i bambini, di giocare con un compagno immaginario, specialmente negli anni prescolari. In genere queste immagini scompaiono con la scuola, ma in certi casi vanno avanti anche nell’adolescenza e nell’età adulta. Spesso il fenomeno è accompagnato dal sentire la voce dell’amico, come se fosse reale.
La perdita di una persona cara: il fenomeno di sentirne la voce, a volte accompagnato anche dalla percezione della presenza del defunto, è più frequente nei primi mesi dopo la scomparsa4. In genere si tratta di un’esperienza consolatoria e di sostegno. Tuttavia in genere le persone non ne parlano, perché hanno paura delle critiche o della derisione degli altri – o di essere considerate mentalmente fragili.
I traumi, lo stress: come detto, l’entità dell’evento è legata anche alla sensibilità particolare della persona. Un evento drammatico che è alla base di molte esperienze legate alle voci è l’abuso, o comunque una infanzia di abbandono, deprivazione affettiva, stress emozionale. La privazione per lungo tempo di cibo, sonno, compagnia è anch’essa fonte di fenomeni uditivi.
Stati di malattia, medicine: una febbre alta può essere accompagnata da sintomi uditivi; l’iperventilazione può scatenare questa esperienza. Molti farmaci hanno tra i loro effetti collaterali allucinazioni di vario tipo, tra cui queste delle voci5.
Esperienze con le droghe: le sostanze psichedeliche possono attivare diversi fenomeni allucinatori, tra cui il sentire le voci. In molte culture tradizionali, l’utilizzo di sostanze psicotrope per attivare esperienze trascendentali o di guarigione era condotto all’interno di un percorso iniziatico, guidato da uno sciamano esperto, e contenuto all’interno di una comunità sociale che ne condivideva il senso. Nella nostra società l’utilizzo “selvaggio” delle droghe ha creato vasti spazi di esperienze non guidate, non condivise, a rischio quindi di devastare la persona. Anche l’utilizzo della tavoletta “Ouija”6 può attivare il fenomeno delle Voci.
Le “esperienze di pre-morte” (NDE, Near Death Experience). Il fenomeno ha cominciato ad essere studiato dal dottor R. Moody7, negli anni ’70. Più del 40% delle persone che sono “ritornate” dall’esperienza NDE riportano di aver vissuto sentimenti di grande pace, la sensazione di aver viaggiato molto velocemente all’interno di un “tunnel di luce” o comunque verso una luce molto brillante, di aver incontrato persone care, amici o “Esseri di Luce”. Per molti, è stato come se la loro vita fosse scorsa davanti ai loro occhi in pochi istanti. La scelta di “ritornare” è spesso dolorosa, legata a sentimenti di amore verso i propri cari e anche alla consapevolezza di avere la propria missione di vita da completare. Moltissime di queste esperienze sono accompagnate dal sentire delle Voci, che spesso continuano ad essere presenti come guide, nel nuovo percorso che la persona deve affrontare nella vita, profondamente mutata dall’esperienza.
L’ispirazione: che sia creativa o trascendentale, una forte ispirazione può essere accompagnata da percezioni uditive o sensoriali. Il poeta Rilke, l’artista visionario William Blake, il compositore Schumann, sentivano voci creative durante i loro momenti di produzione artistica. Sul fronte dell’esperienza spirituale, della chiamata vocazionale, possiamo ricordare il Mahatma Ghandi, che per tutta la sua vita si è affidato a una guida spirituale di cui sentiva la voce.

Personaggi famosi che sentivano le voci
Nella lunga storia dell’umanità moltissimi personaggi famosi erano uditori di voci: in campo religioso, Mosè, Gesù, Santa Teresa, San Francesco, Sant’Agostino, Giovanna d’Arco, San Paolo, Santa Ildegarda di Bingen, Maometto;  in campo filosofico e psicologico, Socrate, Platone, Freud, Jung, Swedenborg, Ghandi, Elisabeth Kübler-Ross; in campo artistico, Rainer M. Rilke, Andy Warhol, Schumann, Vincent Van Gogh, Ligabue. Ancora, lo statista Wiston Churchill e per finire “atterrando” ai tempi nostri, il calciatore Zidane, Anthony Hopkins, Penelope Cruz.

Come è stato affrontato finora
Nella nostra cultura, il sentire le voci è stato collocato come sintomo sicuro di schizofrenia o disturbo mentale. Disturbo visto come cronico, quindi da trattare con un approccio di semplice contenimento, che va nella direzione dell’ospedalizzazione, del trattamento con il farmaco – da prendere a vita, tanto non vi è possibilità di risoluzione e in ogni caso i rischi di ricaduta sono certi. Questa visione sconfortante ha contribuito ad alimentare il pesantissimo stigma che circonda questo disagio, facendo sì che molte persone tacciano, rischiando in tal modo l’aggravarsi di un sintomo che potrebbe essere alleviato in tempi molto più rapidi e con minore sofferenza. Certamente, finché il sintomo è considerato diagnostico di schizofrenia, la voglia di “uscire allo scoperto” per farsi trattare è rara!
“Il volto del dottore divenne serissimo quando menzionai la voce, e insistette nel segnalarmi a quello che definì uno “specialista” ospedaliero, che in realtà si rivelò essere una psichiatra. Quello che io volevo e mi serviva era parlare con qualcuno delle mie sensazioni d’ansia e scarsa autostima, che provavo sin dal mio arrivo al college. Ma la psichiatra puntò sull’enfatizzazione dell’importanza della voce, come se stessimo discutendo di una formula matematica secondo la quale avere quel tipo di esperienza significasse automaticamente che io fossi folle. (…) All’improvviso, non ero più una giovane donna istruita della classe media con un futuro roseo davanti a me, ma una paziente mentale potenzialmente pericolosa. Percependo lo stigma correlato a ciò, non dissi a nessuno di aver iniziato colloqui settimanali con un’infermiera psichiatrica, oltre ad appuntamenti mensili con la psichiatra. Durante questi colloqui, cercai ancora di esprimere la mia ricerca di un’identità da quando ero partita da casa, ma queste normali sensazioni di insicurezza adolescenziale furono subito interpretate come sintomi di una mente malata. Sebbene non credessi di essere matta, mi fidavo – come farebbe chiunque – delle opinioni mediche della psichiatra anziché del mio istinto. Al mio secondo colloquio con la psichiatra, due mesi dopo, essa suggerì di farmi ricoverare in ospedale “solo per tre giorni” per sottopormi ad esami. (…)
Nel frattempo, alla voce della mia mente, quella tranquilla, se ne aggiunse un’altra più stridula e critica. Nel corso delle settimane successive, il numero delle voci, a volte maschili e altre femminili e tutte molte più minacciose, andarono aumentando fino a diventare dodici. Di tutte queste, la voce più dominante, e demoniaca, aveva il tono minaccioso di un uomo. (…) Pensai che fosse il risultato dei farmaci che prendevo e della mia lunga e stressante degenza in ospedale. Ma uno psichiatra mi convinse che era un altro sintomo della schizofrenia paranoica.(…) Dopo tre mesi d’ospedale, ritornai al college: una studentessa molto diversa e molto più disturbata da quella che ero stata. Come risultato degli effetti collaterali dei farmaci, il mio peso era balzato da 57 a 95 chili. Inoltre ero affetta da un tremore costante e camminavo ondeggiando. Ancora oggi non so come gli altri studenti avevano saputo dov’ero stata, ma in qualche modo era successo. Dopo una settimana dal mio ritorno, la porta della mia stanza del pensionato venne deturpata da graffiti e qualcuno sputò al mio passaggio mentre andavo a lezione.
(…) Al mio successivo colloquio con la psichiatra dissi che pensavo che i farmaci rendessero peggiori le mie voci e chiesi se potevo smettere di assumerli; lei insistette che dovevo continuare. Quando ammisi di avere pensieri suicidali in conseguenza di come venivo trattata nel college, mi rimandò in ospedale per altre sette settimane. (…). Nel corso dei mesi estivi, mi portarono al servizio psichiatrico della zona, a Bradford. Il mio primo appuntamento fu con uno psichiatra di nome Pat Bracken. Mi chiese perché mi fossi rivolta a lui e io risposi sinceramente: “Ho 18 anni e sono una schizofrenica paranoica”. Successivamente, durante la cura, Pat mi disse che la mia risposta era la dichiarazione più sconsolata che avesse sentito da una ragazza, ma tutto ciò che disse quella volta fu: “Mi dica cosa pensa che potrebbe aiutarla”. Gli chiesi di ridurre gli psicofarmaci. Con mio grande stupore, fu subito d’accordo. Parlammo delle mie voci ed egli mi suggerì di smettere di considerarle un sintomo di malattia mentale e di iniziare a vederle come un modo per capire me stessa.(…) Nel corso dei sette mesi successivi, io e Pat ci siamo incontrati a intervalli regolari settimanali, riducendo gradualmente i farmaci sino ad eliminarli. Durante tutto questo tempo, scoprii che se affrontavo le voci, esse diventavano meno frequenti. Imparai anche a sfidare la mia voce più minacciosa, rifiutandomi di fare ciò che voleva facessi e dicendo a me stessa che non era altro che un simbolo della mia stessa rabbia esteriorizzata.(…) Da tre anni sono in buona salute, felice e perfettamente stabilizzata. La schizofrenia è un’etichetta spaventosa e fuorviante che stigmatizza le persone. Mentre i dottori insistono nel dire che sono stata schizofrenica, non so se questa etichetta mi appartenesse veramente.(…) Spesso mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me se non avessi incontrato uno psichiatra che ha capito come curarmi. Se adesso sento una voce non sono più spaventata, poiché capisco perché mi succede. Per mia madre, il campanello d’allarme dello stress è un attacco di emicrania. Per me, sono le voci”8.

Ospedalizzazione, psichiatria, farmaci: queste sono state finora le soluzioni adottate. I risultati, potete immaginare, sono stati scarsi per mille evidenti ragioni, prima tra tutte il fatto che la diagnosi stessa era “a vita”. Che tipo di sforzo, di impegno di guarigione può mettere un medico che è stato condizionato a pensare in termini così rassegnati, verso un fenomeno che effettivamente, quando è grave, desta sconforto e paura? Oltre a questi aspetti drammatici sul piano della vita della persona, vi sono anche i costi economici, che sono elevatissimi.
Tuttavia anche in queste condizioni non sono pochi i movimenti che hanno iniziato a prendere la distanza dallo stigma e a cercare di trovare formule nuove, più umane e coraggiose, di affrontare il problema9. Se le voci emergono dopo un trauma, la cosa logica è chiedersi cosa è rimasto sospeso, inaccudito, non elaborato: come dice Eleanor nella sua testimonianza, è importante iniziare a vederle come un modo per capire noi stessi. La voce è l’espressione di un problema. Il nostro sistema invece sopprime la voce con gli psicofarmaci – cosa che può essere indispensabile in fase acuta, ma che, protratta, elimina il sintomo ma anche … la persona, che non ha più stimoli, risorse, volontà e vita propria. E neppure la possibilità di elaborare il grido disperato di aiuto che la voce rappresenta.

Vivere con le Voci: da sintomi a esperienze
Una premessa è doverosa a questo punto del viaggio: le “voci”, o sé interiori, sono una realtà condivisa della psiche umana. Tutti noi umani siamo “molteplici”: abbiamo aspetti diversi che si muovono dentro di noi, ci sostengono, ci sabotano, ci “parlano” (anche solo nel flusso del pensiero discorsivo)… la differenza è che c’è un “io” che mantiene le fila di queste diverse energie – che possono anche appartenere a piani diversi di realtà.
Se questa visione della molteplicità fosse serenamente condivisa, come sarebbe più facile inquadrare il fenomeno “udire le voci” nella sua realtà!
Una Voce, dunque, è una Parte di noi che porta un messaggio: magari urlato, magari brutale, magari devastante, ma ha a che fare con il trauma subìto, con un’istanza di vita, con un bisogno non percepito. Come affrontare queste emozioni? Come potenziarsi rispetto alle Voci, in modo da creare un “io” più cosciente, più centrato rispetto alle Parti?
Rapidamente, alcuni punti essenziali:
Accettare la realtà delle Voci, imparare ad ascoltarle. Creare una relazione con le Voci è la via più importante per potenziare il “centro” e apprezzare la ricchezza, la complessità, le risorse che le Voci possono offrire. Anche voci che inizialmente si presentano come ostili, nemiche, arrabbiate, possono cambiare nel tempo e diventare più amiche.
Scoprire qual è il messaggio della Voce. Ogni Voce ha una sua visione della realtà, delle sue convinzioni. Ascoltarle con curiosità e mente aperta aiuta a comprenderne la storia, l’origine. Ovviamente questi due punti richiedono di superare la paura delle Voci, e questo richiede l’aiuto di un counselor/ terapista / facilitatore esperto del processo.
Imparare a relazionarsi con la Voce in modi diversi. Se la Voce è aggressiva, anziché arrabbiarsi a propria volta o sentirsi vittima, si può chiedere qual è la ragione di quella rabbia.

Alla luce dei cambiamenti che il nuovo DSM porterà, occorre offrire una maggiore informazione su questo argomento, disimparando quello che è stato insegnato e diffuso da decenni! Questo vale sia per gli operatori di ogni livello, che per le altre persone coinvolte. Studi indicano che circa il 20% degli adolescenti potrebbe soffrire qualche volta di questi fenomeni10; i genitori, gli amici, gli insegnanti debbono sapere che il fenomeno non è necessariamente grave, e che nella maggioranza dei casi si può risolvere con dei colloqui, se l’aiuto giusto arriva ai primi segnali.
Creare gruppi di auto-mutuo-aiuto sia per gli Uditori che per i famigliari è una cosa importantissima che già sta avvenendo in molte zone11.

La nostra vita sul pianeta è troppo breve perché continuiamo a sprecarla tra paure, dissidi, sperpero e divisioni. Anche se questi elementi di paura e di sconforto vengono alimentati in tanti modi, non possiamo dimenticare “chi” siamo; e neppure che gli altri, che condividono questo così breve tempo, sono nostri fratelli, condividono il nostro stesso destino. Forse possiamo cominciare a guardarci negli occhi, almeno ogni tanto, e riconoscere questo viaggio comune, questo comune destino. E forse, allora, diventa più facile riconoscere che tutti, in qualche modo, siamo stati feriti e che tutti, in qualche modo, possiamo essere l’uno per l’altro strumento di guarigione.

Nexus - “Sentire la Voci”: da “patologia” a “normalità”?

Mindly

Mario Cardano intervista testimonianza di Cristina Contini

Cristina Contini

Una breve biografia autorizzata

Riproduco in quel che segue un estratto dal saggio di Mario Cardano, Il male mentale, Distruzione e ricostruzione del sé. Il saggio è pubblicato nel volume a cura di Laura Bonica e Mario Cardano, Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 123-171. Il lavoro di Mario mette a confronto la ricostruzione dell’esperienza della sofferenza psichica di quattro persone scelte per illustrare altrettante chiavi di lettura della diversità costituita dall’esperienza del male mentale. In quel che segue vi propongo la parte in cui l’autore ricostruisce l’esperienza di Serena, una persona che, come avrete modo di capire mi assomiglia davvero tanto…

Serena ha quarant’anni, è nata in una famiglia benestante dell’Emilia. L’intervista, focalizzata sull’esperienza delle voci, consegna pochi dettagli sui primi anni di vita di Serena, limitandosi a ritrarre una bambina già dotata di quel dono speciale che solo più tardi verrà riconosciuto come tale. Alcuni cenni riferiti a quel periodo ritraggono comunque una famiglia religiosa, coesa che, in fin dei conti si è mostrata capace di accettare Serena, la “pecora nera”, come lei stessa scherzosamente si definisce. Del percorso scolastico ci è dato di conoscere solo la conclusione: Serena si diploma in ragioneria e, poco dopo il diploma viene assunta in un’importante azienda locale. Più o meno nel medesimo periodo si colloca il suo matrimonio con Michele, un uomo che, con discrezione le è sempre stato vicino, anche nei momenti più difficili e da cui, solo di recente, si è separata. Serena ha un figlio adolescente, Luca, che vive con lei. Si può dire che Serena integri, in una sola, due vite: nella prima vita, quella più ordinaria, è la scrupolosa direttrice amministrativa di un presidio sanitario; nella seconda, meno convenzionale, è una sensitiva che – gratuitamente

– mette a disposizione il proprio carisma a beneficio delle persone in difficoltà. In questa sua seconda vita – come si vedrà meglio di seguito – Serena presta ascolto alle persone in coma, mettendole in contatto con i propri congiunti, aiuta le autorità nella ricerca delle persone scomparse e – su di un piano più profano – lavora come facilitatore nei gruppi di uditori di voci, per poi convogliare il distillato spirituale di tutte queste esperienze in un’attività editoriale che l’ha condotta alla pubblicazione di due libri. È questa – almeno per il momento – l’ultima tappa di una traiettoria biografica che ci porta oltre i confini di ciò che il mio scetticismo mi ha insegnato ad accettare per vero e che ha inizio una ventina di anni or sono, nella seconda metà degli anni Ottanta, quando Serena ha poco meno di vent’anni e, a seguito di un banale intervento chirurgico, – complice la sua emofilia – entra in coma per alcune ore, varcando la soglia che la condurrà al mondo dello straordinario.

“Mentre ero in coma ho avuto un’esperienza di distacco corporeo… Cioè, io vedevo il mio corpo disteso lì, vedevo quello che facevano i medici e sentivo anche la voce di mia nonna che mi parlava (…) Poi dopo, una volta ripresa dal coma ho provato a raccontare a mia mamma quel che era successo, ma lei, lei mi ha detto di non parlarne più… Poi ho cominciato a sentire delle voci, e, visto che mia mamma non voleva che ne parlassi, decisi di non parlarne a nessuno, e per almeno due anni non ne parlai con nessuno…” (Serena).

Le voci entrano nella vita di Serena quasi in punta di piedi, lasciando ogni cosa al suo posto, dal lavoro alla famiglia, destando una “sorpresa” che il tempo trascorso e soprattutto il radicale mutamento dell’orizzonte cognitivo ed emotivo entro il quale quegli eventi vengono ricostruiti ridimensionano sensibilmente.

A ridosso di questa crisi, Serena si avvicina a una comunità religiosa, confidando nel suo appoggio per fronteggiare le proprie voci. Chiede di “imparare a pregare” e il sostegno di un “consulente spirituale”. Serena ricorda il sospetto con cui le sue richieste vennero prese in esame, per poi venir respinte: “mi dicevano di rivolgermi alla mia parrocchia … anche perché io non avevo detto niente delle voci”. Decide, pertanto, di seguire un altro percorso, che nel testo più recentemente dato alle stampe (e di cui mi consigliò la lettura prima dell’intervista) definirà come la propria “ricerca”.

“Fin da giovane, nella mia quotidianità, sentivo bisbigli e parole pronunciate in modo così veloce, che non ne comprendevo una. Restare in silenzio, per me, era un’esigenza per capire se ero strana io o se lo erano le voci che sentivo. La mia ricerca, all’inizio, non è stata una ricerca spirituale, ma un cercare coloro che erano dietro a quei bisbigli. Nella luce del giorno non vedevo nessuno. Nel buio della notte sentivo qualcuno che mi circondava ma non capivo. Al lavoro sentivo come il tempo, e il mio tempo, veniva buttato. L’unico luogo in cui avrei potuto trovare qualcosa era sicuramente a me sconosciuto.

Così cominciò la ricerca di quel luogo invisibile. L’intangibile non si può vedere alla luce, e non si può vedere nel buio. L’invisibile si può percepire ma non si può toccare. Io però sapevo che sentivo delle voci, e di quelle conoscevo bene le vibrazioni, ed ero certa che facessero parte di un invisibile molto importante, Io le sentivo ma non le conoscevo. Così ho cominciato a cercare ciò che non conoscevo.

Se la luce e il buio naturale non potevano farmi conoscere ciò che sentivo, ho cercato un buio artificiale chiudendo gli occhi, e una luce che non conoscevo dentro di me. Quello era il luogo sconosciuto, invisibile e molto importante che cercavo. (…) Le voci che mi accompagnavano in quel luogo sconosciuto hanno cominciato a farsi sentire nitidamente anche alla luce del sole. Quale gioia fu per me ascoltare quelle parole ben scandire in una giornata di cielo azzurro… Le mie paure cominciavano a sciogliersi lentamente. Anche se sapevo di stare meglio a volte avevo paura di farmi male. La mia consapevolezza aumentava. Ogni giorno portavo a casa il mio corpo e la mia mente per cercare di far crescere dentro uno spirito, che nel silenzio si mostrava infinito”. (Serena, da un testo pubblicato nel 2003)

L’intervista consente di mettere a fuoco con maggior dettaglio il processo descritto in una chiave quasi poetica nel libro di cui sopra ho riportato un frammento. Serena racconta che nei due anni di silenzio, durante i quali non condivise con nessuno la propria esperienza, stabilì con le voci un accordo: di giorno l’avrebbero lasciata lavorare in pace, in cambio avrebbe dedicato loro tutte le proprie serate. Fu così che per due anni, ogni sera, Serena si chiuse nella propria stanza per ascoltare quei “bisbigli” e trascrivere al computer tutto ciò che riteneva di intendere.

“Tutte le sere, quando tornavo a casa, mi mettevo al computer e scrivevo tutto quello che mi dicevano le voci. Io scrivo velocemente a macchina e riuscivo a scrivere pagine e pagine tutte le sere, hai capito?… E mio marito arriva a casa e si metteva davanti alla televisione, io stavo nella mia stanza e siamo andati avanti così per due anni senza che lui se ne accorgesse…” (Serena).

La stipula di un patto con le voci, per quanto singolare, costituisce una misura che, in modalità quasi sovrapponibili a quelle indicate da Serena, ritroviamo nella testimonianza di una “uditrice di voci”, raccolta da Marius Romme e Sandra Escher: “ho fatto un accordo con le mie voci che prevede che terrò le mie sere libere per loro. Non sono disponibile per nessun altro dopo le otto di sera. Ho chiesto ai miei amici di non chiamarmi dopo quell’ora. Mio marito, fortunatamente, accetta questa sistemazione delle cose. Il vantaggio di questo metodo è che le voci raramente diventano dure da reggere durante il giorno e io posso vivere meglio”.

L’ascolto e la trascrizione delle voci – alcune “gentili” altre meno – persuade Serena della loro realtà, del fatto che quanto udiva non era il frutto delle sue fantasie: “ascoltavo e scrivevo cose che io non sapevo, non conoscevo. Poi dopo andavo a cercare nell’enciclopedia il significato di alcune parole che avevo trascritto che prima non conoscevo. In questo modo mi sono convinta che queste voci non erano una cosa solo mia, perché mi dicevano delle cose che io non sapevo … che imparavo grazie a loro”. Dopo i “due anni di silenzio”, Serena decide di confidarsi con il marito, manifestandogli, al contempo, la sua intenzione di affrontare le voci interpellandole, anche allo scopo di ottenere da loro “consigli, suggerimenti”. Dal marito ottenne un appoggio incondizionato e l’ascolto divenne dialogo.

“Così un giorno chiesi aiuto a una delle mie voci, chiesi come potevo fare per avere un maggior controllo della situazione.. (…) Un giorno andai in una libreria esoterica e chiesi alla voce [una voce maschile con cui aveva un rapporto privilegiato] di indicarmi un libro che mi avrebbe aiutato… Al ché la voce mi dice: “I maestri invisibili”. Io andai dal libraio e chiesi se avevano un libro con quel titolo, mi dissero di sì, che era un libro di Igor Sibaldi”.

Il libro di Sibaldi presentava una tecnica di meditazione con la quale era possibile costituire una sorta di “laboratorio” entro il quale organizzare la propria esperienza spirituale. Seguendo le indicazioni del testo – occhi chiusi, concentrazione – Serena proseguì nella trascrizione delle proprie conversazioni serali con le voci, accrescendo tanto la propria comprensione quanto il loro controllo. Accadde così che, nel proprio “laboratorio spirituale”, Serena sentì la voce del nonno, deceduto da qualche anno, che la esortava a impiegare le sue capacità a beneficio del prossimo, “per aiutare”. Sorpresa e forse un po’ incredula, Serena chiese a questa voce di darle una prova della propria autenticità. Il nonno le mostrò il proprio orologio e le disse dove avrebbe potuto trovarlo nella casa nella quale aveva vissuto. L’orologio fu ritrovato proprio nel luogo indicato dal nonno: “in un armadio, sotto delle lenzuola”, e ciò persuase Serena dell’autenticità di quella voce, la convinse di “essere in contatto con qualcuno”.

La ricostruzione di quegli anni prosegue con l’illustrazione puntuale e analitica delle “prove”, ora ricercate, ora ottenute del tutto involontariamente, dell’autenticità delle voci, divenute il marchio di una capacità distintiva di Serena, la chiaroveggenza.

“Nel frattempo continuavo ad avere sempre più conferme, una volta, ad esempio ero in un bar e al banco c’era un ragazzo (…) Questo ragazzo che hm, vidi questo bambino che cadeva dalla bicicletta e si sfregiavaaa il viso, e quindi… vedevo tutto il suo viso sporco di sangue (…) Questo ragazzo quando si girò aveva…un segno qua [indica la guancia] una cicatrice qua, al ché io sorrisi perché poi alla fine quando sono tanti fenomeni… Eh comunque cominciavo a diventare diciamo padrona, diciamo che non era più una novità, al che io sorrisi e gli dissi: “Guarda scommetto che te lo sei fatto da bambino quando hmmm giravi in bicicletta”. Perché comunque ridendo e scherzando, per in realtà questa, eh, è invadenza, e io avevo bisogno della conferma, e ogni tanto le chiedevo (…)

Ee, eee, quindiii, eee, come posso dire, in dodici anni di silenzio, che io sono stata, fino a trentadue anni nel silenzio, nel senso che non l’ho comunicato più di tanto, ehm, mi sono rafforzata, mi son resa conto che comunque molto probabilmente avevo delle voci psichiche mie mentali, quelle più negative sicuramente, questa è la mia convinzione, eeehmmm, eee, avevo comunque delle voci che comunque, hm, dicevano cose che io non potevo né inventarmi, non sapere, io ho avuto comunque delle conferme personali…” (Serena).

Colpisce la capacità analitica di Serena che le consente di distinguere due classi di voci, dotate di diversa autonomia ontologica: le voci “mentali”, che lei stessa costruiva, e quelle, vere, sulla cui autenticità ha potuto disporre di “conferme”. Supportata da questa messe di prove, Serena decide di rompere il silenzio anche con la madre, cui racconta delle proprie “premonizioni”, delle proprie “esperienze di chiaroveggenza”.

“Ne parlai anche con mia madre, dicendole cosa mi era successo dopo il coma, delle voci e di queste mie premonizioni, di queste mie esperienze di chiaroveggenza. Al ché mia madre mi disse che questa cosa qua ce l’avevo anche prima del coma, anche da bambina e mi ha ricordato che tante volte, quando veniva qualcuno a trovarci, io prima che andassero via li accompagnavo alla porta e dicevo: “scommetto che…” che so… “avrete un piccolo incidente”, farete questa cosa o quell’altra. E queste cose tante volte capitavano e lo venivano a dire a mia madre. Al ché mia madre mi proibì di dire queste cose e io non le dissi più. Questa cosa però mi sconvolgeva un po’. Prima pensavo che fosse stato il coma a provocare questi fenomeni, invece mia madre mi diceva che ero sempre stato così. Io allora dovevo ripensare da principio alla mia storia, pensare che magari io sono proprio così e che il coma non ha fatto altro che accelerare una cosa che io già avevo dentro” (Serena).

Serena, con l’aiuto della madre, riscrive (allora e ora, nel contesto dell’intervista) la propria storia, reintrerpretando le proprie impertinenze di bimba come il segno di un carisma che solo più tardi riconoscerà come tale. Serena decide, dunque, di sviluppare questa sua capacità e per questo frequenta un corso in Galles, tenuto da una veggente, dove si convince definitivamente che “si può lavorare anche con la mente (…) che anche la mente ha una forza”. Ha inizio così una peculiare transizione biografica, che lentamente trasporta Serena nel mondo della medianità. Da principio – siamo nel Duemila – si avvicina a un Centro culturale della sua regione che offriva ai genitori in lutto per la perdita di un figlio o una figlia la possibilità di entrare in contatto con loro, grazie alla mediazione di sensitivi. Conosce la fondatrice del Centro – “una mamma che ha perso il figlio” – che la invita a mettersi alla prova come tramite, medium, nei contatti fra i genitori e i loro figli defunti. Serena è restia, teme di non reggere il rapporto con ragazzi che potevano avere lan sua età, tuttavia, la speranza di poter rendere un servizio a persone oppresse da una profonda sofferenza, di “aiutare”, come le aveva indicato il nonno, la spingono a provarsi anche su questo terreno.

“Andai a questo convegno e cominciaiii ad ascoltare il relatore. Mentre ero coi relatori dissi: “Va bene, se qui sono dei ragazzi che sono morti, di cui c’è la madre eh, perm-“, ho permesso che comunque mi parlassero… L’avessi mai fatto, di lì a poco un paio di, di ragazzi, non ragazze, soprattutto ragazzi, ehm, dice: “Va bene, allora mia madre è qua, è in seconda fila coi capelli biondi…” (…) E quindiii questa fondatrice mi mise alla prova eeehm, e purtroppo ebbi questo tipo di conferme (…) Quindi magari mi trovavo di fronte il papà di un, di un bambino di tre anni, di dieci anni, di vent’anni, quello che era, o una moglie per il marito che era defunto, e non faceva altro che mettersi di fronte a me, con foto o senza foto, e io non facevo altro che dire: “Bon, sento la voce di un uomo, che mi dice questo, questo, questo”. Che lo vedessi o non lo vedessi fisicamente, io non facevo altro che trasferire ciò che sentivo, quindi è stata una scoperta prima di tutto mia, e poiii queste, questo riferire era consolatorio per queste persone. Per cui io mi trovavo molto… Sono stata tre, quattro anni in questo, anche (con enfasi) in questo ambiente, nei convegni, dove comunque portavo, come relazione era la mia testimonianza: quindi voci, flash e quindi venivo definita sensitiva che nel termine inglese è medium, però più che altro io, eeehm, ho vissuto sempre questo discorso del conflitto economico, dove comunque c’erano persone che si facevano pagare (…)

Questo conflitto l’ho sentito tantissimo perché comunque per me era un dono immenso, l’ho sempre vissuto come dono, eee se, se io dovessi darci un valore, un prezzo, il prezzo sarebbe altissimo per appropriarsene, per cui visto che io non ho pagato nulla e mi è stato dato, anche se comunque è stato un trauma, anche se ho portato sofferenza, ehm, non, non vedevo e non ho mai visto un compenso per ciò che questo riferire delle voci cioè, avesse un merito per essere compensato economicamente” (Serena).

La riflessione di Serena su quanto definisce “conflitto economico” mette in luce l’esito di un processo di rivalutazione della propria diversità, che si configura qui come un carisma, un dono divino così grande che impone generosità, che le richiede di mettersi la servizio di chi soffre, di chi è in difficoltà e di farlo a titolo assolutamente gratuito, poiché la propria retribuzione, per così dire, è già compresa nel dono. Nel medesimo solco, quello della medianità al servizio di chi soffre, si colloca un impegno che Serena assunse di lì a poco: l’ascolto della voce dei giovani in coma a beneficio dei congiunti che ne seguono con trepidazione le sorti. Serena racconta di essere stata avvicinata da alcuni medici presenti ai convegni ai quali era invitata come relatrice. Le proposero, anche alla luce della sua personale esperienza del coma, di impiegare le sue doti per ascoltare la voce dei pazienti in coma. Anche in questo caso Serena decide di mettersi alla prova in un paio di ospedali della sua zona.

“La caposala o la cardiologa della rianimazione, di fronte alla famiglia disperata cosa facevano? Loro buttavano lì una cosa (…): diceva: “Guardate, se voi volete io conosco una persona – non più di tanto – che forse può darvi delle informazioni, o perché vostro figlio le trasferisce o perché lei le sente stando vicino al figlio”. E allora io cosa facevo? Col permesso dei genitori, quando comunque loro dicono: ”Beh, va beh, vogliamo parlarci”, io entro in rianimazione (…) vado col mio registratore e tutto ciò che vedo, stando vicino al, a quel corpo di quel ragazzo in quel caso, e tutto quello che sento, io lo dico. E quindi cosa abbiamo scoperto? Che stando vicino al corpo del ragazzo o della ragazza o dell’uomo, io riesco a vedere comunque il vissuto, un vissuto suo, e questo vissuto, sotto forma di, di flash, io lo racconto: quindi se è un incidente la dinamica e cos’è successo prima, cos’è successo dopo. E, all’inizio sai, io rimanevo però poi mi sono abituata (…) All’inizio il mio turbamento cioè la mia inquietudine è stata proprio del fatto che una volta che uscivo dall’ospedale io riferivo a tutti ai genitori, questo (…) Loro non mi dicevano niente, mi portavano sul luogo dell’incidente e mi dicevano: “Questo è l’incrocio che hai visto, questa è la casa che hai descritto, quello là è il capannone che m’hai descritto, queste sono le chiavi che m’hai detto questo …”. (…) Per me era inquietante perché? Perché (sorride) tutto quello che ero andata a riferire, loro mi davano conferma al millesimo” (Serena).

Un potere così grande, sembra dire Serena, impone un’altrettanto grande responsabilità nel comunicare ai congiunti le buone, così come le cattive notizie sulla prognosi: “ho imparato a non dare diagnosi, a non dire ciò a cui uno va incontro (…) non mi sbilancio proprio, perché comunque dico: «Se sbaglio?», mi dico: «E se ho visto male?»”.

Un ulteriore ambito d’impegno per Serena riguarda la ricerca di dispersi e, più in generale la collaborazione con i tribunali, per i quali si mette al servizio come un “cane segugio” seguendo le tracce che la conducono, ora a una persona smarrita, ora, nel caso di un delitto, al corpo del reato.

“Quando c’è un omicidio il tribunale assegna sempre un, una figura che è l’investigatore diciamo non ufficiale. Cioè, quando viene fatta una perizia balistica che, non quella ufficiale dove ci sono i giornalisti e tutto, però ehm, prima che venga fatta l’ufficiale, vien fatta una perizia balistica anonima, dove comunque non viene comunicato alla stampa a nessuno, e in questo caso vengono usate persone come me, dove comunque la persona assegnata dal tribunale prende una sensitiva e poi dopo ti fa sentire gli oggetti, gli oggetti della persona morta, oppure ti fa entrare nel, nell’appartamento. Logicamente una persona sensibile o telepaticamente, per, per il vissuto che c’è in una casa, è in grado di vedere certe immagini, e quindi io non faccio altro che riferirle, anche se comunque nella maggior parte dei casi, nel mio caso, non è necessario andare nella casa, ma è sufficiente un oggetto, la ciabatta, il pigiama, così. Il loro obiettivo, al 90% dei casi, è trovare il corpo del reato, perché per loro dare il corpo, cioè trovare il corpo del reato vuol dire poi sbrogliare tutta la situazione, cioè una sensitiva può dargli il vissuto a, b, c, d, e, un’ora dietro un’altra, però se non si trova (sorridendo) il corpo del reato loro poi non riescono a dimostrare come hanno saputo a, b, c, d, cioè, il pezzo finale, il loro, è sempre questo (…) È stranissimo da spiegare però esiste…” (Serena).

Con l’ultimo degli impegni di Serena rientriamo in un territorio più familiare che non costituisce una sfida allo scetticismo di chi scrive e, forse, anche di chi legge queste pagine. Serena racconta di essere stata avvicinata dal Centro di Salute Mentale della sua regione che, a conoscenza della sua singolarissima esperienza di fronteggiamento delle voci, le propose di condurre un gruppo di uditori di voci.

“La psichiatria di *** [nome località] s’è fatta avanti perché tramite una persona, un operatore, che mi conosceva (…) e m’ha detto: “Guarda Serena la psichiatria, eee, ha questo tipo di problema: ci sono uditori di voci, persone che stanno bene, professionisti, avvocati che vanno in reparto e dicono: “Sento le voci, sto male, mi dia delle pastiglie che non voglio più sentir le voci”.

Persone equilibratissime, e il primario dopo tre mesi che ti dice: “Quella stessa persona, equilibrata, che ha la professione, dopo tre mesi che sente le voci è impazzita” … “ha mandato affanculo tutti, a puttane il matrimonio (sorridendo)” mi spiego? E questi sono casi, eh, sempre, purtroppo, più frequenti, per cui in un certo senso c’è stato questo grossissimo scambio, anche loro han cercato di capire la chiave che mi ha concesso di, di non impazzire, di non, non esser seguita da uno psichiatra, di non aver preso psicofarmaci, cos’è che mi ha aiutato, per cui mi dice: “Non che ci sia una verità assoluta però ”dice“ se il tuo esempio può esser d’aiuto a un uditore di voci, dire: se ce l’hai fatta tu ce la posso fare anch’io” (…) Allora di lì ho presentato questo progetto, ho detto: “Qual è il vostro obiettivo?” [il primario] fa: ”Sarebbe il massimo fare un gruppo di auto-mutuo-aiuto” (…) ho detto: “Va bene, allora io faccio il facilitatore”, quin- Il massimo è avere un facilitatore uditore di voci con degli uditori di voci, perché comunque in questo gruppo ci sono due operatori infermieri e un educatore, però non sono uditori ed è evidente come gli uditori fanno riferimento a te (enfatizzando) che sei uditore, perché a chi non sente le voci, non lo guardano nemmeno in viso, ecco. Quindi adesso… andremo … anche *** [nome località] ha chiesto la collaborazione e, e apriremooo un altro gruppo di uditori di voci a Parma nella, in psichiatria, e questo per me comunque è realizzante” (Serena).

Serena affronta questo impegno con il medesimo spirito di servizio con cui si cimenta nelle altre attività di impianto più spirituale, consapevole di come la sua persole esperienza, il suo “metodo” di fronteggiamento delle voci possa essere di aiuto ad altri uditori: “con ognuno di loro si cerca di trovare il loro equilibrio, ma non perché la Serena ha un metodo, ma perché con la Serena se ne può parlare; allora con un uditore di voci si sbilanciano di più, cioè in un attimo impari la storia, hai capito? E con lo psichiatra non sempre si sbilanciano perché comunque hanno qualche pastiglia in più dopo, e quindi…”. La consapevolezza di maggiori possibilità di intesa fra uditori di voci, non sfocia, tuttavia, nell’adozione di posizioni anti-psichiatriche: “io rispetto tantissimo la psichiatria, questa è stata la mia premessa quando mi han chiamato, perché comunque quando non sai dove sbattere la testa almeno /un ospedale ti accoglie sempre/ (ridendo)…”.

(…)

Il primo passo verso la ricostruzione della propria identità, Serena lo compie con l’accettazione delle proprie voci, che, da principio si configura come una timorosa e insieme sospettosa disponibilità all’ascolto. L’accettazione delle voci rende possibile quel patto di convivenza che le consentirà di attribuire un senso alla propria esperienza. E questo senso si profila al termine di un lungo itinerario riflessivo che consente a Serena di riconoscere l’autonomia ontologica di quei “bisbigli”, o meglio, che le consente di separare le voci “psichiche”, “mentali” che attribuisce a se stessa, alla propria sofferenza, dalle altre voci, quelle dietro le quali si celava qualcuno, altro da sé.

Nel proprio “laboratorio spirituale” e, soprattutto fuori da esso, Serena raccoglie prove, conferme che suffragano una lettura della propria esperienza che, progressivamente prende corpo, che la conduce a trasformare lo stigma della sofferenza psichica in un carisma, un dono divino, che non può che essere condiviso.

“Cioè è come se tu fossi un medico, dottore, che se va a fermare un’emorragia, vede una persona che ha un’emorragia, cioè tu ti senti di aiuto no? se puoi aiutarlo, puoi evitargli il peggio. Ecco, io mi sento così, nei confronti di un uditore, nei confronti di una persona che è in difficoltà, nei confronti anche di una persona che magari molto ferita, che è in coma, che lanci un appello comunque parla in un altro modo dove comunque io posso percepire, se uno ci crede o non ci crede è un problema personale, una scoperta personale, ecco” (Serena).

Questa vocazione al servizio si lega a una specifica tensione spirituale che progressivamente ha preso forma. Sue Rowlands, maestra spirituale in Galles e ora mentore di Serena, nella prefazione all’ultimo libro che la mia interlocutrice ha dato alle stampe (dal quale ho tratto la citazione riportata più sopra), la annovera fra le “ambasciatrici che Dio ha scelto su questa terra”. Nel medesimo testo, Serena rilegge la propria sofferenza come una prova che l’ha condotta a Dio.

Questa tensione spirituale ritorna, in tono più sobrio, anche nell’intervista, quando esplicitamente interpellata sul suo rapporto con il divino, Serena osserva: “ecco, non so cosa si intenda bene con divino, io comunque, credo comunque in un’anima, che comunque in un qualche modo può, può comunicare, può parlare. Io parlo sempre di un mondo spirituale perché comunque lo collego a un’anima”.

Ecco dunque Serena ben radicata nella nuova identità, quella di una medium che restituisce il proprio dono attraverso l’aiuto ora alla madre in lutto, ora al giovane in coma e ai suoi congiunti, ora al disperso. Da qui, l’ultima tappa, quella che, paradossalmente verrebbe da dire, la conduce nel luogo che la più parte delle persone con la medesima esperienza avrebbero incontrato nella prima stazione del proprio percorso, la psichiatria. Qui, tuttavia, Serena approda in una veste che non è quella del paziente, che chie de aiuto per fronteggiare la propria sofferenza, ma in quella dell’esperto non professional che mostra, innanzitutto con l’esempio della propria vita, che si può fare altrimenti, che la “pastiglia” non è l’unica soluzione possibile, consegnando questo suo orientamento anche negli auspici con cui si chiude il nostro colloquio: ” spero che tu riesca a farti sentire su questa cosa (…) cioè, non dico dimostrare, però far capire che si può uscire da una certa situazione non obbligatoriamente dalla psichiatria…”.

(…)

In due frammenti del libro a sua firma, cui ho già attinto più sopra mi sembra di cogliere in modo allusivo, ma, al contempo eloquente, la chiave di lettura di Serena della propria diversità: Tutti noi, come uomini, siamo fiori e frutti di quella terra, ognuno con la propria forma e, quando ci inchineremo, i nostri occhi vedranno che la forma di qualsiasi fiore ha un bellissimo colore, un delicatissimo profumo e una voglia di vivere lì, in quel prato, senza essere rimosso, senza essere limitato a sopravvivere dentro a un piccolo vaso. (…) Ho capito che i fiori della tua creazione sono tutti belli. Le viole non hanno nulla da invidiare alle rose, come nulla il profumo della rosa nel colore del giglio. Se le margherite volessero essere tulipani i campi di primavera non sarebbero più gli stessi.

(…)

Questa, dunque è Serena, una donna che ho avuto il privilegio di conoscere di persona: nei lunghi colloqui telefonici che hanno preceduto l’intervista e poi con l’intervista da cui ho tratto le riflessioni raccolte in questo paragrafo. Ho incontrato una donna equilibrata, consapevole della propria differenza, presentata con garbo, senza alcuna spavalderia, mostrando di saper accogliere lo scetticismo di chi – in buona fede – la ascolta. Serena, ancora oggi, convive con le proprie voci, sulle quali ha imparato ad esercitare un efficace controllo, che ha saputo disciplinare: ” ho la mia disciplina mentale ho comunque il rispetto delle voci che comunque mi rispettano; per cui ti dico, io oggi sono impegnata per due giorni e non voglio sentirvi, io per due giorni non li sento, quando sono ammalata non li sento … mi spiego? Poi magari è un compromesso mentale, non importa, io questo equilibrio l’ho ottenuto, io ho dato questa spiegazione, potrebbe essere quella giusta, potrebbe non essere quella giusta, per me è quella giusta”.

Mindly

Mario Cardano intervista testimonianza di Cristina Contini

Cristina Contini

Una breve biografia autorizzata

Riproduco in quel che segue un estratto dal saggio di Mario Cardano, Il male mentale, Distruzione e ricostruzione del sé. Il saggio è pubblicato nel volume a cura di Laura Bonica e Mario Cardano, Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 123-171. Il lavoro di Mario mette a confronto la ricostruzione dell’esperienza della sofferenza psichica di quattro persone scelte per illustrare altrettante chiavi di lettura della diversità costituita dall’esperienza del male mentale. In quel che segue vi propongo la parte in cui l’autore ricostruisce l’esperienza di Serena, una persona che, come avrete modo di capire mi assomiglia davvero tanto…

Serena ha quarant’anni, è nata in una famiglia benestante dell’Emilia. L’intervista, focalizzata sull’esperienza delle voci, consegna pochi dettagli sui primi anni di vita di Serena, limitandosi a ritrarre una bambina già dotata di quel dono speciale che solo più tardi verrà riconosciuto come tale. Alcuni cenni riferiti a quel periodo ritraggono comunque una famiglia religiosa, coesa che, in fin dei conti si è mostrata capace di accettare Serena, la “pecora nera”, come lei stessa scherzosamente si definisce. Del percorso scolastico ci è dato di conoscere solo la conclusione: Serena si diploma in ragioneria e, poco dopo il diploma viene assunta in un’importante azienda locale. Più o meno nel medesimo periodo si colloca il suo matrimonio con Michele, un uomo che, con discrezione le è sempre stato vicino, anche nei momenti più difficili e da cui, solo di recente, si è separata. Serena ha un figlio adolescente, Luca, che vive con lei. Si può dire che Serena integri, in una sola, due vite: nella prima vita, quella più ordinaria, è la scrupolosa direttrice amministrativa di un presidio sanitario; nella seconda, meno convenzionale, è una sensitiva che – gratuitamente

– mette a disposizione il proprio carisma a beneficio delle persone in difficoltà. In questa sua seconda vita – come si vedrà meglio di seguito – Serena presta ascolto alle persone in coma, mettendole in contatto con i propri congiunti, aiuta le autorità nella ricerca delle persone scomparse e – su di un piano più profano – lavora come facilitatore nei gruppi di uditori di voci, per poi convogliare il distillato spirituale di tutte queste esperienze in un’attività editoriale che l’ha condotta alla pubblicazione di due libri. È questa – almeno per il momento – l’ultima tappa di una traiettoria biografica che ci porta oltre i confini di ciò che il mio scetticismo mi ha insegnato ad accettare per vero e che ha inizio una ventina di anni or sono, nella seconda metà degli anni Ottanta, quando Serena ha poco meno di vent’anni e, a seguito di un banale intervento chirurgico, – complice la sua emofilia – entra in coma per alcune ore, varcando la soglia che la condurrà al mondo dello straordinario.

“Mentre ero in coma ho avuto un’esperienza di distacco corporeo… Cioè, io vedevo il mio corpo disteso lì, vedevo quello che facevano i medici e sentivo anche la voce di mia nonna che mi parlava (…) Poi dopo, una volta ripresa dal coma ho provato a raccontare a mia mamma quel che era successo, ma lei, lei mi ha detto di non parlarne più… Poi ho cominciato a sentire delle voci, e, visto che mia mamma non voleva che ne parlassi, decisi di non parlarne a nessuno, e per almeno due anni non ne parlai con nessuno…” (Serena).

Le voci entrano nella vita di Serena quasi in punta di piedi, lasciando ogni cosa al suo posto, dal lavoro alla famiglia, destando una “sorpresa” che il tempo trascorso e soprattutto il radicale mutamento dell’orizzonte cognitivo ed emotivo entro il quale quegli eventi vengono ricostruiti ridimensionano sensibilmente.

A ridosso di questa crisi, Serena si avvicina a una comunità religiosa, confidando nel suo appoggio per fronteggiare le proprie voci. Chiede di “imparare a pregare” e il sostegno di un “consulente spirituale”. Serena ricorda il sospetto con cui le sue richieste vennero prese in esame, per poi venir respinte: “mi dicevano di rivolgermi alla mia parrocchia … anche perché io non avevo detto niente delle voci”. Decide, pertanto, di seguire un altro percorso, che nel testo più recentemente dato alle stampe (e di cui mi consigliò la lettura prima dell’intervista) definirà come la propria “ricerca”.

“Fin da giovane, nella mia quotidianità, sentivo bisbigli e parole pronunciate in modo così veloce, che non ne comprendevo una. Restare in silenzio, per me, era un’esigenza per capire se ero strana io o se lo erano le voci che sentivo. La mia ricerca, all’inizio, non è stata una ricerca spirituale, ma un cercare coloro che erano dietro a quei bisbigli. Nella luce del giorno non vedevo nessuno. Nel buio della notte sentivo qualcuno che mi circondava ma non capivo. Al lavoro sentivo come il tempo, e il mio tempo, veniva buttato. L’unico luogo in cui avrei potuto trovare qualcosa era sicuramente a me sconosciuto.

Così cominciò la ricerca di quel luogo invisibile. L’intangibile non si può vedere alla luce, e non si può vedere nel buio. L’invisibile si può percepire ma non si può toccare. Io però sapevo che sentivo delle voci, e di quelle conoscevo bene le vibrazioni, ed ero certa che facessero parte di un invisibile molto importante, Io le sentivo ma non le conoscevo. Così ho cominciato a cercare ciò che non conoscevo.

Se la luce e il buio naturale non potevano farmi conoscere ciò che sentivo, ho cercato un buio artificiale chiudendo gli occhi, e una luce che non conoscevo dentro di me. Quello era il luogo sconosciuto, invisibile e molto importante che cercavo. (…) Le voci che mi accompagnavano in quel luogo sconosciuto hanno cominciato a farsi sentire nitidamente anche alla luce del sole. Quale gioia fu per me ascoltare quelle parole ben scandire in una giornata di cielo azzurro… Le mie paure cominciavano a sciogliersi lentamente. Anche se sapevo di stare meglio a volte avevo paura di farmi male. La mia consapevolezza aumentava. Ogni giorno portavo a casa il mio corpo e la mia mente per cercare di far crescere dentro uno spirito, che nel silenzio si mostrava infinito”. (Serena, da un testo pubblicato nel 2003)

L’intervista consente di mettere a fuoco con maggior dettaglio il processo descritto in una chiave quasi poetica nel libro di cui sopra ho riportato un frammento. Serena racconta che nei due anni di silenzio, durante i quali non condivise con nessuno la propria esperienza, stabilì con le voci un accordo: di giorno l’avrebbero lasciata lavorare in pace, in cambio avrebbe dedicato loro tutte le proprie serate. Fu così che per due anni, ogni sera, Serena si chiuse nella propria stanza per ascoltare quei “bisbigli” e trascrivere al computer tutto ciò che riteneva di intendere.

“Tutte le sere, quando tornavo a casa, mi mettevo al computer e scrivevo tutto quello che mi dicevano le voci. Io scrivo velocemente a macchina e riuscivo a scrivere pagine e pagine tutte le sere, hai capito?… E mio marito arriva a casa e si metteva davanti alla televisione, io stavo nella mia stanza e siamo andati avanti così per due anni senza che lui se ne accorgesse…” (Serena).

La stipula di un patto con le voci, per quanto singolare, costituisce una misura che, in modalità quasi sovrapponibili a quelle indicate da Serena, ritroviamo nella testimonianza di una “uditrice di voci”, raccolta da Marius Romme e Sandra Escher: “ho fatto un accordo con le mie voci che prevede che terrò le mie sere libere per loro. Non sono disponibile per nessun altro dopo le otto di sera. Ho chiesto ai miei amici di non chiamarmi dopo quell’ora. Mio marito, fortunatamente, accetta questa sistemazione delle cose. Il vantaggio di questo metodo è che le voci raramente diventano dure da reggere durante il giorno e io posso vivere meglio”.

L’ascolto e la trascrizione delle voci – alcune “gentili” altre meno – persuade Serena della loro realtà, del fatto che quanto udiva non era il frutto delle sue fantasie: “ascoltavo e scrivevo cose che io non sapevo, non conoscevo. Poi dopo andavo a cercare nell’enciclopedia il significato di alcune parole che avevo trascritto che prima non conoscevo. In questo modo mi sono convinta che queste voci non erano una cosa solo mia, perché mi dicevano delle cose che io non sapevo … che imparavo grazie a loro”. Dopo i “due anni di silenzio”, Serena decide di confidarsi con il marito, manifestandogli, al contempo, la sua intenzione di affrontare le voci interpellandole, anche allo scopo di ottenere da loro “consigli, suggerimenti”. Dal marito ottenne un appoggio incondizionato e l’ascolto divenne dialogo.

“Così un giorno chiesi aiuto a una delle mie voci, chiesi come potevo fare per avere un maggior controllo della situazione.. (…) Un giorno andai in una libreria esoterica e chiesi alla voce [una voce maschile con cui aveva un rapporto privilegiato] di indicarmi un libro che mi avrebbe aiutato… Al ché la voce mi dice: “I maestri invisibili”. Io andai dal libraio e chiesi se avevano un libro con quel titolo, mi dissero di sì, che era un libro di Igor Sibaldi”.

Il libro di Sibaldi presentava una tecnica di meditazione con la quale era possibile costituire una sorta di “laboratorio” entro il quale organizzare la propria esperienza spirituale. Seguendo le indicazioni del testo – occhi chiusi, concentrazione – Serena proseguì nella trascrizione delle proprie conversazioni serali con le voci, accrescendo tanto la propria comprensione quanto il loro controllo. Accadde così che, nel proprio “laboratorio spirituale”, Serena sentì la voce del nonno, deceduto da qualche anno, che la esortava a impiegare le sue capacità a beneficio del prossimo, “per aiutare”. Sorpresa e forse un po’ incredula, Serena chiese a questa voce di darle una prova della propria autenticità. Il nonno le mostrò il proprio orologio e le disse dove avrebbe potuto trovarlo nella casa nella quale aveva vissuto. L’orologio fu ritrovato proprio nel luogo indicato dal nonno: “in un armadio, sotto delle lenzuola”, e ciò persuase Serena dell’autenticità di quella voce, la convinse di “essere in contatto con qualcuno”.

La ricostruzione di quegli anni prosegue con l’illustrazione puntuale e analitica delle “prove”, ora ricercate, ora ottenute del tutto involontariamente, dell’autenticità delle voci, divenute il marchio di una capacità distintiva di Serena, la chiaroveggenza.

“Nel frattempo continuavo ad avere sempre più conferme, una volta, ad esempio ero in un bar e al banco c’era un ragazzo (…) Questo ragazzo che hm, vidi questo bambino che cadeva dalla bicicletta e si sfregiavaaa il viso, e quindi… vedevo tutto il suo viso sporco di sangue (…) Questo ragazzo quando si girò aveva…un segno qua [indica la guancia] una cicatrice qua, al ché io sorrisi perché poi alla fine quando sono tanti fenomeni… Eh comunque cominciavo a diventare diciamo padrona, diciamo che non era più una novità, al che io sorrisi e gli dissi: “Guarda scommetto che te lo sei fatto da bambino quando hmmm giravi in bicicletta”. Perché comunque ridendo e scherzando, per in realtà questa, eh, è invadenza, e io avevo bisogno della conferma, e ogni tanto le chiedevo (…)

Ee, eee, quindiii, eee, come posso dire, in dodici anni di silenzio, che io sono stata, fino a trentadue anni nel silenzio, nel senso che non l’ho comunicato più di tanto, ehm, mi sono rafforzata, mi son resa conto che comunque molto probabilmente avevo delle voci psichiche mie mentali, quelle più negative sicuramente, questa è la mia convinzione, eeehmmm, eee, avevo comunque delle voci che comunque, hm, dicevano cose che io non potevo né inventarmi, non sapere, io ho avuto comunque delle conferme personali…” (Serena).

Colpisce la capacità analitica di Serena che le consente di distinguere due classi di voci, dotate di diversa autonomia ontologica: le voci “mentali”, che lei stessa costruiva, e quelle, vere, sulla cui autenticità ha potuto disporre di “conferme”. Supportata da questa messe di prove, Serena decide di rompere il silenzio anche con la madre, cui racconta delle proprie “premonizioni”, delle proprie “esperienze di chiaroveggenza”.

“Ne parlai anche con mia madre, dicendole cosa mi era successo dopo il coma, delle voci e di queste mie premonizioni, di queste mie esperienze di chiaroveggenza. Al ché mia madre mi disse che questa cosa qua ce l’avevo anche prima del coma, anche da bambina e mi ha ricordato che tante volte, quando veniva qualcuno a trovarci, io prima che andassero via li accompagnavo alla porta e dicevo: “scommetto che…” che so… “avrete un piccolo incidente”, farete questa cosa o quell’altra. E queste cose tante volte capitavano e lo venivano a dire a mia madre. Al ché mia madre mi proibì di dire queste cose e io non le dissi più. Questa cosa però mi sconvolgeva un po’. Prima pensavo che fosse stato il coma a provocare questi fenomeni, invece mia madre mi diceva che ero sempre stato così. Io allora dovevo ripensare da principio alla mia storia, pensare che magari io sono proprio così e che il coma non ha fatto altro che accelerare una cosa che io già avevo dentro” (Serena).

Serena, con l’aiuto della madre, riscrive (allora e ora, nel contesto dell’intervista) la propria storia, reintrerpretando le proprie impertinenze di bimba come il segno di un carisma che solo più tardi riconoscerà come tale. Serena decide, dunque, di sviluppare questa sua capacità e per questo frequenta un corso in Galles, tenuto da una veggente, dove si convince definitivamente che “si può lavorare anche con la mente (…) che anche la mente ha una forza”. Ha inizio così una peculiare transizione biografica, che lentamente trasporta Serena nel mondo della medianità. Da principio – siamo nel Duemila – si avvicina a un Centro culturale della sua regione che offriva ai genitori in lutto per la perdita di un figlio o una figlia la possibilità di entrare in contatto con loro, grazie alla mediazione di sensitivi. Conosce la fondatrice del Centro – “una mamma che ha perso il figlio” – che la invita a mettersi alla prova come tramite, medium, nei contatti fra i genitori e i loro figli defunti. Serena è restia, teme di non reggere il rapporto con ragazzi che potevano avere lan sua età, tuttavia, la speranza di poter rendere un servizio a persone oppresse da una profonda sofferenza, di “aiutare”, come le aveva indicato il nonno, la spingono a provarsi anche su questo terreno.

“Andai a questo convegno e cominciaiii ad ascoltare il relatore. Mentre ero coi relatori dissi: “Va bene, se qui sono dei ragazzi che sono morti, di cui c’è la madre eh, perm-“, ho permesso che comunque mi parlassero… L’avessi mai fatto, di lì a poco un paio di, di ragazzi, non ragazze, soprattutto ragazzi, ehm, dice: “Va bene, allora mia madre è qua, è in seconda fila coi capelli biondi…” (…) E quindiii questa fondatrice mi mise alla prova eeehm, e purtroppo ebbi questo tipo di conferme (…) Quindi magari mi trovavo di fronte il papà di un, di un bambino di tre anni, di dieci anni, di vent’anni, quello che era, o una moglie per il marito che era defunto, e non faceva altro che mettersi di fronte a me, con foto o senza foto, e io non facevo altro che dire: “Bon, sento la voce di un uomo, che mi dice questo, questo, questo”. Che lo vedessi o non lo vedessi fisicamente, io non facevo altro che trasferire ciò che sentivo, quindi è stata una scoperta prima di tutto mia, e poiii queste, questo riferire era consolatorio per queste persone. Per cui io mi trovavo molto… Sono stata tre, quattro anni in questo, anche (con enfasi) in questo ambiente, nei convegni, dove comunque portavo, come relazione era la mia testimonianza: quindi voci, flash e quindi venivo definita sensitiva che nel termine inglese è medium, però più che altro io, eeehm, ho vissuto sempre questo discorso del conflitto economico, dove comunque c’erano persone che si facevano pagare (…)

Questo conflitto l’ho sentito tantissimo perché comunque per me era un dono immenso, l’ho sempre vissuto come dono, eee se, se io dovessi darci un valore, un prezzo, il prezzo sarebbe altissimo per appropriarsene, per cui visto che io non ho pagato nulla e mi è stato dato, anche se comunque è stato un trauma, anche se ho portato sofferenza, ehm, non, non vedevo e non ho mai visto un compenso per ciò che questo riferire delle voci cioè, avesse un merito per essere compensato economicamente” (Serena).

La riflessione di Serena su quanto definisce “conflitto economico” mette in luce l’esito di un processo di rivalutazione della propria diversità, che si configura qui come un carisma, un dono divino così grande che impone generosità, che le richiede di mettersi la servizio di chi soffre, di chi è in difficoltà e di farlo a titolo assolutamente gratuito, poiché la propria retribuzione, per così dire, è già compresa nel dono. Nel medesimo solco, quello della medianità al servizio di chi soffre, si colloca un impegno che Serena assunse di lì a poco: l’ascolto della voce dei giovani in coma a beneficio dei congiunti che ne seguono con trepidazione le sorti. Serena racconta di essere stata avvicinata da alcuni medici presenti ai convegni ai quali era invitata come relatrice. Le proposero, anche alla luce della sua personale esperienza del coma, di impiegare le sue doti per ascoltare la voce dei pazienti in coma. Anche in questo caso Serena decide di mettersi alla prova in un paio di ospedali della sua zona.

“La caposala o la cardiologa della rianimazione, di fronte alla famiglia disperata cosa facevano? Loro buttavano lì una cosa (…): diceva: “Guardate, se voi volete io conosco una persona – non più di tanto – che forse può darvi delle informazioni, o perché vostro figlio le trasferisce o perché lei le sente stando vicino al figlio”. E allora io cosa facevo? Col permesso dei genitori, quando comunque loro dicono: ”Beh, va beh, vogliamo parlarci”, io entro in rianimazione (…) vado col mio registratore e tutto ciò che vedo, stando vicino al, a quel corpo di quel ragazzo in quel caso, e tutto quello che sento, io lo dico. E quindi cosa abbiamo scoperto? Che stando vicino al corpo del ragazzo o della ragazza o dell’uomo, io riesco a vedere comunque il vissuto, un vissuto suo, e questo vissuto, sotto forma di, di flash, io lo racconto: quindi se è un incidente la dinamica e cos’è successo prima, cos’è successo dopo. E, all’inizio sai, io rimanevo però poi mi sono abituata (…) All’inizio il mio turbamento cioè la mia inquietudine è stata proprio del fatto che una volta che uscivo dall’ospedale io riferivo a tutti ai genitori, questo (…) Loro non mi dicevano niente, mi portavano sul luogo dell’incidente e mi dicevano: “Questo è l’incrocio che hai visto, questa è la casa che hai descritto, quello là è il capannone che m’hai descritto, queste sono le chiavi che m’hai detto questo …”. (…) Per me era inquietante perché? Perché (sorride) tutto quello che ero andata a riferire, loro mi davano conferma al millesimo” (Serena).

Un potere così grande, sembra dire Serena, impone un’altrettanto grande responsabilità nel comunicare ai congiunti le buone, così come le cattive notizie sulla prognosi: “ho imparato a non dare diagnosi, a non dire ciò a cui uno va incontro (…) non mi sbilancio proprio, perché comunque dico: «Se sbaglio?», mi dico: «E se ho visto male?»”.

Un ulteriore ambito d’impegno per Serena riguarda la ricerca di dispersi e, più in generale la collaborazione con i tribunali, per i quali si mette al servizio come un “cane segugio” seguendo le tracce che la conducono, ora a una persona smarrita, ora, nel caso di un delitto, al corpo del reato.

“Quando c’è un omicidio il tribunale assegna sempre un, una figura che è l’investigatore diciamo non ufficiale. Cioè, quando viene fatta una perizia balistica che, non quella ufficiale dove ci sono i giornalisti e tutto, però ehm, prima che venga fatta l’ufficiale, vien fatta una perizia balistica anonima, dove comunque non viene comunicato alla stampa a nessuno, e in questo caso vengono usate persone come me, dove comunque la persona assegnata dal tribunale prende una sensitiva e poi dopo ti fa sentire gli oggetti, gli oggetti della persona morta, oppure ti fa entrare nel, nell’appartamento. Logicamente una persona sensibile o telepaticamente, per, per il vissuto che c’è in una casa, è in grado di vedere certe immagini, e quindi io non faccio altro che riferirle, anche se comunque nella maggior parte dei casi, nel mio caso, non è necessario andare nella casa, ma è sufficiente un oggetto, la ciabatta, il pigiama, così. Il loro obiettivo, al 90% dei casi, è trovare il corpo del reato, perché per loro dare il corpo, cioè trovare il corpo del reato vuol dire poi sbrogliare tutta la situazione, cioè una sensitiva può dargli il vissuto a, b, c, d, e, un’ora dietro un’altra, però se non si trova (sorridendo) il corpo del reato loro poi non riescono a dimostrare come hanno saputo a, b, c, d, cioè, il pezzo finale, il loro, è sempre questo (…) È stranissimo da spiegare però esiste…” (Serena).

Con l’ultimo degli impegni di Serena rientriamo in un territorio più familiare che non costituisce una sfida allo scetticismo di chi scrive e, forse, anche di chi legge queste pagine. Serena racconta di essere stata avvicinata dal Centro di Salute Mentale della sua regione che, a conoscenza della sua singolarissima esperienza di fronteggiamento delle voci, le propose di condurre un gruppo di uditori di voci.

“La psichiatria di *** [nome località] s’è fatta avanti perché tramite una persona, un operatore, che mi conosceva (…) e m’ha detto: “Guarda Serena la psichiatria, eee, ha questo tipo di problema: ci sono uditori di voci, persone che stanno bene, professionisti, avvocati che vanno in reparto e dicono: “Sento le voci, sto male, mi dia delle pastiglie che non voglio più sentir le voci”.

Persone equilibratissime, e il primario dopo tre mesi che ti dice: “Quella stessa persona, equilibrata, che ha la professione, dopo tre mesi che sente le voci è impazzita” … “ha mandato affanculo tutti, a puttane il matrimonio (sorridendo)” mi spiego? E questi sono casi, eh, sempre, purtroppo, più frequenti, per cui in un certo senso c’è stato questo grossissimo scambio, anche loro han cercato di capire la chiave che mi ha concesso di, di non impazzire, di non, non esser seguita da uno psichiatra, di non aver preso psicofarmaci, cos’è che mi ha aiutato, per cui mi dice: “Non che ci sia una verità assoluta però ”dice“ se il tuo esempio può esser d’aiuto a un uditore di voci, dire: se ce l’hai fatta tu ce la posso fare anch’io” (…) Allora di lì ho presentato questo progetto, ho detto: “Qual è il vostro obiettivo?” [il primario] fa: ”Sarebbe il massimo fare un gruppo di auto-mutuo-aiuto” (…) ho detto: “Va bene, allora io faccio il facilitatore”, quin- Il massimo è avere un facilitatore uditore di voci con degli uditori di voci, perché comunque in questo gruppo ci sono due operatori infermieri e un educatore, però non sono uditori ed è evidente come gli uditori fanno riferimento a te (enfatizzando) che sei uditore, perché a chi non sente le voci, non lo guardano nemmeno in viso, ecco. Quindi adesso… andremo … anche *** [nome località] ha chiesto la collaborazione e, e apriremooo un altro gruppo di uditori di voci a Parma nella, in psichiatria, e questo per me comunque è realizzante” (Serena).

Serena affronta questo impegno con il medesimo spirito di servizio con cui si cimenta nelle altre attività di impianto più spirituale, consapevole di come la sua persole esperienza, il suo “metodo” di fronteggiamento delle voci possa essere di aiuto ad altri uditori: “con ognuno di loro si cerca di trovare il loro equilibrio, ma non perché la Serena ha un metodo, ma perché con la Serena se ne può parlare; allora con un uditore di voci si sbilanciano di più, cioè in un attimo impari la storia, hai capito? E con lo psichiatra non sempre si sbilanciano perché comunque hanno qualche pastiglia in più dopo, e quindi…”. La consapevolezza di maggiori possibilità di intesa fra uditori di voci, non sfocia, tuttavia, nell’adozione di posizioni anti-psichiatriche: “io rispetto tantissimo la psichiatria, questa è stata la mia premessa quando mi han chiamato, perché comunque quando non sai dove sbattere la testa almeno /un ospedale ti accoglie sempre/ (ridendo)…”.

(…)

Il primo passo verso la ricostruzione della propria identità, Serena lo compie con l’accettazione delle proprie voci, che, da principio si configura come una timorosa e insieme sospettosa disponibilità all’ascolto. L’accettazione delle voci rende possibile quel patto di convivenza che le consentirà di attribuire un senso alla propria esperienza. E questo senso si profila al termine di un lungo itinerario riflessivo che consente a Serena di riconoscere l’autonomia ontologica di quei “bisbigli”, o meglio, che le consente di separare le voci “psichiche”, “mentali” che attribuisce a se stessa, alla propria sofferenza, dalle altre voci, quelle dietro le quali si celava qualcuno, altro da sé.

Nel proprio “laboratorio spirituale” e, soprattutto fuori da esso, Serena raccoglie prove, conferme che suffragano una lettura della propria esperienza che, progressivamente prende corpo, che la conduce a trasformare lo stigma della sofferenza psichica in un carisma, un dono divino, che non può che essere condiviso.

“Cioè è come se tu fossi un medico, dottore, che se va a fermare un’emorragia, vede una persona che ha un’emorragia, cioè tu ti senti di aiuto no? se puoi aiutarlo, puoi evitargli il peggio. Ecco, io mi sento così, nei confronti di un uditore, nei confronti di una persona che è in difficoltà, nei confronti anche di una persona che magari molto ferita, che è in coma, che lanci un appello comunque parla in un altro modo dove comunque io posso percepire, se uno ci crede o non ci crede è un problema personale, una scoperta personale, ecco” (Serena).

Questa vocazione al servizio si lega a una specifica tensione spirituale che progressivamente ha preso forma. Sue Rowlands, maestra spirituale in Galles e ora mentore di Serena, nella prefazione all’ultimo libro che la mia interlocutrice ha dato alle stampe (dal quale ho tratto la citazione riportata più sopra), la annovera fra le “ambasciatrici che Dio ha scelto su questa terra”. Nel medesimo testo, Serena rilegge la propria sofferenza come una prova che l’ha condotta a Dio.

Questa tensione spirituale ritorna, in tono più sobrio, anche nell’intervista, quando esplicitamente interpellata sul suo rapporto con il divino, Serena osserva: “ecco, non so cosa si intenda bene con divino, io comunque, credo comunque in un’anima, che comunque in un qualche modo può, può comunicare, può parlare. Io parlo sempre di un mondo spirituale perché comunque lo collego a un’anima”.

Ecco dunque Serena ben radicata nella nuova identità, quella di una medium che restituisce il proprio dono attraverso l’aiuto ora alla madre in lutto, ora al giovane in coma e ai suoi congiunti, ora al disperso. Da qui, l’ultima tappa, quella che, paradossalmente verrebbe da dire, la conduce nel luogo che la più parte delle persone con la medesima esperienza avrebbero incontrato nella prima stazione del proprio percorso, la psichiatria. Qui, tuttavia, Serena approda in una veste che non è quella del paziente, che chie de aiuto per fronteggiare la propria sofferenza, ma in quella dell’esperto non professional che mostra, innanzitutto con l’esempio della propria vita, che si può fare altrimenti, che la “pastiglia” non è l’unica soluzione possibile, consegnando questo suo orientamento anche negli auspici con cui si chiude il nostro colloquio: ” spero che tu riesca a farti sentire su questa cosa (…) cioè, non dico dimostrare, però far capire che si può uscire da una certa situazione non obbligatoriamente dalla psichiatria…”.

(…)

In due frammenti del libro a sua firma, cui ho già attinto più sopra mi sembra di cogliere in modo allusivo, ma, al contempo eloquente, la chiave di lettura di Serena della propria diversità: Tutti noi, come uomini, siamo fiori e frutti di quella terra, ognuno con la propria forma e, quando ci inchineremo, i nostri occhi vedranno che la forma di qualsiasi fiore ha un bellissimo colore, un delicatissimo profumo e una voglia di vivere lì, in quel prato, senza essere rimosso, senza essere limitato a sopravvivere dentro a un piccolo vaso. (…) Ho capito che i fiori della tua creazione sono tutti belli. Le viole non hanno nulla da invidiare alle rose, come nulla il profumo della rosa nel colore del giglio. Se le margherite volessero essere tulipani i campi di primavera non sarebbero più gli stessi.

(…)

Questa, dunque è Serena, una donna che ho avuto il privilegio di conoscere di persona: nei lunghi colloqui telefonici che hanno preceduto l’intervista e poi con l’intervista da cui ho tratto le riflessioni raccolte in questo paragrafo. Ho incontrato una donna equilibrata, consapevole della propria differenza, presentata con garbo, senza alcuna spavalderia, mostrando di saper accogliere lo scetticismo di chi – in buona fede – la ascolta. Serena, ancora oggi, convive con le proprie voci, sulle quali ha imparato ad esercitare un efficace controllo, che ha saputo disciplinare: ” ho la mia disciplina mentale ho comunque il rispetto delle voci che comunque mi rispettano; per cui ti dico, io oggi sono impegnata per due giorni e non voglio sentirvi, io per due giorni non li sento, quando sono ammalata non li sento … mi spiego? Poi magari è un compromesso mentale, non importa, io questo equilibrio l’ho ottenuto, io ho dato questa spiegazione, potrebbe essere quella giusta, potrebbe non essere quella giusta, per me è quella giusta”.

Mindly

Affari Italiani – svolta nella scienza chi sente le voci non è malato

Chi sente le voci non è malato

chi sente le voci non è malato Il nuovo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali parla chiaro: avere allucinazioni uditive è del tutto normale per gli uomini. Il decano di psicologia clinica italiana, ordinario di psicologia a Padova e autore di numerosi testi sull’argomento Alessandro Salvini commenta con Affari: “La psichiatria ha sempre stigmatizzato questi fenomeni, considerandoli sintomo di psicosi. Da oggi invece, con il nuovo Dsm, non sarà più così: le allucinazioni uditive, le cosiddette voci, sono presenti, secondo i dati che la psichiatria accetta e fornisce su un range di popolazione normale che va dall’8 al 15%”.

INTERVISTA

Svolta nella psichiatra dopo le pubblicazioni del noto medico Mario Maj. Chi “sente le voci” non è necessariamente un soggetto malato. Non solo. Avere allucinazioni uditive è del tutto normale per gli uomini. E’ scritto nell’ultima revisione del Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders («Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali»), noto anche con l’acronimo DSM, uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali più utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella clinica che nella ricerca.

Così tutti quegli studiosi che per anni hanno sostenuto e studiato questo fenomeno (come Enrico Molinari, Maria Quarato e Cristina Contini del movimento Parlo con le voci) hanno vinto, ottenendo dalla comunità scientifica il riconoscimento di questo principio. “Finalmente la scienza si accorge che possono esserci allucinazioni in soggetti normali”, commenta il decano di psicologia clinica italiana, ordinario di psicologia a Padova e autore di numerosi testi sull’argomento Alessandro Salvini. “Ho speso parte della mia vita a scrivere sulle allucinazioni in soggetti normali e accolgo con grande soddisfazione la dichiarazione del professor Mario Maj, che ammette che l’8-15 % della popolazione ha allucinazioni acustiche senza essere psicotico. Per anni sono stati stigmatizzati fenomeni che in molte persone sono naturali e che antropologicamente richiamano alle voci degli antichi padri ebraici e greci, da Platone a Mose, o anche Jung, che era anche lui uditore di voci per parlare della contemporaneità”.

Che cosa significa in sintesi la pubblicazione del professor Maj?
“Significa che le allucinazioni uditive, le cosiddette voci, sono presenti, secondo i dati che anche oggi la Psichiatria accetta e fornisce (congresso Sopsi 2012) su un range di popolazione normale che va dall’8 al 15%. Secondo noi i dati sono ancora più alti, riferendosi a persone che, almeno una volta a settimana, sentono una voce”.

In che senso questa “scoperta” può essere considerata rivoluzionaria?
“La psichiatria ha sempre stigmatizzato questi fenomeni, considerandoli sintomo di psicosi. Se è vero che le allucinazioni possono essere presenti nelle psicosi e in molte altre patologie (epilessie, tumori cerebrali, demenze) è altrettanto vero che l’udire voci, senza avere nessun altro sintomo, non ha rilevanza dal punto di vista patognonomico”.

Quindi da oggi si considerano soggetti sani anche coloro che sentono le voci…
“Sì, la psichiatria internazionale oggi, con il nuovo Dsm, che uscirà a maggio del 2013, non considera più le voci come sintomo di primo rango e le ritiene finalmente insufficienti, da sole, per formulare una diagnosi di psicosi. Dai nostri studi all’Università di Padova abbiamo campionato centinaia di persone, uditrici di voci, non rilevando alcuna traccia di psicosi”.

E allora da che cosa dipende questa sensazione che non ha un riscontro nella realtà?
“L’antropologia ci ha insegnato a capire che l’attitudine ad ascoltare voci è presente in ognuno di noi. Validi contributi sono stati forniti dallo studioso Julian Jaynes (” La mente bicamerale”) e da altri grandi autori.
La storia, da Mose, a Gesù, a Buddha, ricordando le grandi religioni, sino ai giorni nostri, attraverso Jung o attori famosi come Anthony Hopkins o Penelope Cruz, ci insegna che l’udire voci è un’esperienza umana”.

E scientificamente come si inquadra questro fenomeno?
“Di recente la psichiatria, che oggi ha accettato questo assunto, ha iniziato a parlare di una sindrome subclinica che si chiama psychotic like experience, che riguarderebbe il 20% degli adolescenti e l’8% delle persone e che presenta sintomatologie simili alle psicosi che, però, scompaiono nel 75-90% dei casi. Purtroppo, nonostante queste percentuali (e nonostante poche persone del gruppo rimanente transitino verso le psicosi) la psichiatria ritenta di patologizzare una situazione che considera, essa stessa, transitoria”.

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Mindly

“Sentire le voci” è più comune di quanto creduto

“Sentire le voci” è più comune di quanto creduto, e non solo per le psicosi

I risultati contraddicono la credenza comune in psichiatria, secondo cui solo chi soffre di schizofrenia o di altre psicosi sente voci nella testa

Sentire ‘voci di dentro’, come nella commedia di Eduardo De Filippo, e vedere cose che altri non vedono, e’ piu’ frequente di quanto si pensi comunemente. E non avviene solo a chi soffre di psicosi o di allucinazioni. E’ il risultato di uno studio internazionale guidato dal Brain Institute dell’University of Queensland, in Australia, secondo cui e’ un’esperienza che vive circa una persona su 20. Lo studio, che ha coinvolto 30 mila persone di 19 paesi, ha esaminato per lo piu’ persone ben funzionanti, che vivono nella comunita’, hanno un lavoro e sono altrimenti in salute. “Talvolta le voci commentano sulle loro azioni, possono descrivere cio’ che la persona sta facendo. Altre volte le voci parlano della persona, o le danno ordini”, scrive il responsabile dello studio, il neurobiologo John McGrath, sulla rivista JAMA Psychiatry dell’American Medical Association. Tra le persone che hanno ammesso di aver avuto tali allucinazioni, un terzo ha detto che e’ accaduto solo una volta, mentre un terzo ha riferito di un numero maggiore di episodi, fino a cinque durante la vita. I risultati contraddicono la credenza comune in psichiatria, secondo cui solo chi soffre di schizofrenia o di altre psicosi sente voci nella testa. “Si tratta di un indizio importante, su quale parte del cervello possa malfunzionare, interferire con i circuiti che controllano il linguaggio, l’ascolto e la parola”, sostiene McGrath. “Sara’ possibile comprendere i meccanismi sottostanti, che causano allucinazioni solo transitorie in alcune persone, mentre altre soffrono di condizioni piu’ persistenti come la schizofrenia. Se possiamo separare queste due tipologie e i meccanismi sottostanti, potremmo scoprire la causa di questi sintomi”, aggiunge. “C’e’ da domandarsi – conclude McGrath – se avere queste esperienze aumenta il rischio di depressione o di disturbi di ansia piu’ tardi nella vita. Conoscere questi sintomi puo’ aiutare a creare una procedura di screening per intervenire tempestivamente”.

Link al sito

Mindly

INTERVENTO PSICOLOGICO CON UDITORI DI VOCI E FAMIGLIE

TIPOLOGIA CORSO
Tutorial (con audio)N. CREDITI ECM
4,5 ORE

QUOTA:
€ 80,00
Iva esente art. 10

VALIDITA’ DEL CORSO
Dal 08/08/2016 Al 31/12/2016

AUTRICI
Dr.ssa S. Laurendi, Dr.ssa V. Marelli, Dr.ssa M. Somma


DESTINATARI
Psicologo – Medico (multidisciplinare) – Educatore – Infermiere – Infermiere pediatrico – Logopedista – Tecnico della riabilitazione psichiatrica – Tecnico audiometrista – Tecnico audioprotesista – Tecnico di neurofisiopatologia – Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva.

PERCHE’ ISCRIVERSI A QUESTO CORSO
Il tutorial è stato concepito per trasmettere efficaci strategie di ‘affrontamento’ delle voci. Si intende proporre un modello di intervento che combina l’utilizzo di tecniche terapeutiche derivanti dalla teoria sistemica-relazionale (soprattutto nel lavoro con le famiglie) con le tecniche esperenziali di Cristina Contini, offrendo un lavoro globale in cui coinvolgere sia l’uditore sia i suoi famigliari.

OBIETTIVO GENERALE (ECM)
La comunicazione efficace interna, esterna, con paziente. La privacy ed il consenso informato (7) OBIETTIVI SPECIFICI Trasmettere le modalità integrate di gestione di casi clinici di uditori di voci, tenendo presenti le variabili sistemiche e di ciclo vitale. Far acquisire strumenti di interpretazione del contenuto delle voci che rimandano al vissuto familiare e sociale più ampio dell’uditore. Programmare interventi completi in cui coinvolgere l’uditore e la sua famiglia.

CERTIFICAZIONE RILASCIATA
Attestato ECM scaricabile direttamente dalla piattaforma, previo superamento del test, e valido per le professioni sanitarie indicate. Il corso dovrà essere terminato rispettando il periodo di validità. In caso di ritardo non sarà possibile rimborsare il corso e ricevere i crediti ECM.

CONTENUTI
Il percorso di Simona e famiglia: Il modello di intervento sistemico e sua integrazione con le tecniche di affrontamento di Cristina Contini (elementi di comunicazione e analisi strutturale dei sistemi familiari. Presentazione di un caso di uditrice di voci adolescente: affrontamento/percorso individuale e sostegno familiare e genitoriale.
Il percorso di Rosaria e famiglia:  Presentazione di un caso di uditrice di voci in fase di svincolo adulto dalla famiglia e relative dinamiche familiari. Riflessione su famiglia a transazione psicotica e ruolo dell’uditrice in chiave sistemica in quanto paziente designata: letture sul ciclo di vita famigliare e tecniche di normalizzazione.
Il percorso di Luigi:  Presentazione del caso di un uditore adulto in fase di pensionamento: rischi e risorse legate alla fase di vita e possibili strategie di intervento per obiettivi mirati.

COME ISCRIVERSI
Clicca sul bottone ACQUISTA ORA e segui la procedure di registrazione. Potrai scegliere tra:

Pagamento con Carta di Credito o PayPal oppure Pagamento tramite bonifico bancario intestato a
Gruppo Fipes srl, via dell’Artigiano, 7 – Forlimpopoli (FC) – P. IVA 03369980408 Coordinate: Banca di Forlì – Cod. IBAN IT71T0855613207000000263526 indicando nella causale il titolo del corso. E’ necessario inviare la distinta del bonifico via mail o via fax.

Per Info ed iscrizioni: Tel. 0543 742565 – 747201- Fax 0543 747013- E-mail: [email protected]

Mindly

MANUALE DI AFFRONTAMENTO CON LE MIGLIORI STRATEGIE

TIPOLOGIA CORSO
Ebook

N. CREDITI ECM
4,5 ORE

QUOTA
€ 80,00
Iva esente art. 10

VALIDITA’ DEL CORSO
dal 08/08/2016 al 31/12/2016

AUTORE
Cristina Contini


DESTINATARI
Psicologo – Medico (multidisciplinare) – Educatore – Infermiere – Infermiere pediatrico – Logopedista – Tecnico della riabilitazione psichiatrica – Tecnico    audiometrista    – Tecnico audioprotesista – Tecnico di neurofisiopatologia – Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva.

PERCHE’ ISCRIVERSI A QUESTO CORSO
Questo manuale è stato concepito per proporre efficaci strategie di ‘affrontamento’ delle voci a chiunque le senta od abbia a che fare con una persona che le sente (uditore di voci). E’ arricchito di esperienze maturate nell’ambito psichiatrico ma non solo, si compone di due parti: una indirizzata agli operatori, l’altra invece dedicata specificamente agli uditori con una funzione di guida nella strategia di ‘affrontamento’, attraverso una serie di esercizi pratici, veloci e mirati.

OBIETTIVO GENERALE (ECM)
La comunicazione efficace interna, esterna, con paziente. La privacy ed il consenso informato (7) OBIETTIVI SPECIFICI Trasmettere conoscenze, esperienze e capacità per essere in grado di eseguire colloqui mirati con gli uditori di voci, far emergere i reali problemi e significati celati dietro le parole espresse ed offrire agli uditori vere strategie di controllo per eliminare, gestire e controllare le voci.

CERTIFICAZIONE RILASCIATA
Attestato ECM scaricabile dalla piattaforma, previo superamento del test, e valido solo per le professioni sanitarie indicate. Il corso dovrà essere terminato rispettando il periodo di validità. In caso di ritardo non sarà possibile rimborsare il corso e ricevere i crediti ECM.

CONTENUTI
SAPERE – Le voci: Chi sono, come sono, dove sono, perché ci sono, come si sentono.

SAPERE – La paura: Dire la verità, ammettere le menzogne e le proprie paure. L’Ascolto.

FARE – Spazio di comunicazione – Punti chiave di controllo: Il tempo del Fare dove si agisce creando uno spazio vero e proprio di comunicazione con l’uditore di voci, un tempo di osservazione necessario fatto in possesso di giuste informazioni.
Comprensione che avviene ascoltando la soggettività dell’esperienza.
Conoscere le voci per liberare le voci. IL COLLOQUIO con un uditore di voci: Le domande da porre all’uditore di voci (1°-2°-3° colloquio). La responsabilità dell’uditore nell’attuare le proprie strategie di controllo. L’uditore da soggetto passivo ad attore attivo nella sua stessa malattia ma anche nella propria Vita.

COME ISCRIVERSI
Clicca sul bottone ACQUISTA ORA e segui la procedure di registrazione. Potrai scegliere tra: Pagamento con Carta di Credito o PayPal oppure Pagamento tramite bonifico bancario intestato a
Gruppo Fipes srl, via dell’Artigiano, 7 – Forlimpopoli (FC) – P. IVA 03369980408 Coordinate: Banca di Forlì – Cod. IBAN IT71T0855613207000000263526 indicando nella causale il titolo del corso.

E’ necessario inviare la distinta del bonifico via mail o via fax.

Per Info ed iscrizioni: Tel. 0543 742565 – 747201- Fax 0543 747013- E-mail: [email protected]