Cristina Contini
Una breve biografia autorizzata
Riproduco in quel che segue un estratto dal saggio di Mario Cardano, Il male mentale, Distruzione e ricostruzione del sé. Il saggio è pubblicato nel volume a cura di Laura Bonica e Mario Cardano, Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 123-171. Il lavoro di Mario mette a confronto la ricostruzione dell’esperienza della sofferenza psichica di quattro persone scelte per illustrare altrettante chiavi di lettura della diversità costituita dall’esperienza del male mentale. In quel che segue vi propongo la parte in cui l’autore ricostruisce l’esperienza di Serena, una persona che, come avrete modo di capire mi assomiglia davvero tanto…
Serena ha quarant’anni, è nata in una famiglia benestante dell’Emilia. L’intervista, focalizzata sull’esperienza delle voci, consegna pochi dettagli sui primi anni di vita di Serena, limitandosi a ritrarre una bambina già dotata di quel dono speciale che solo più tardi verrà riconosciuto come tale. Alcuni cenni riferiti a quel periodo ritraggono comunque una famiglia religiosa, coesa che, in fin dei conti si è mostrata capace di accettare Serena, la “pecora nera”, come lei stessa scherzosamente si definisce. Del percorso scolastico ci è dato di conoscere solo la conclusione: Serena si diploma in ragioneria e, poco dopo il diploma viene assunta in un’importante azienda locale. Più o meno nel medesimo periodo si colloca il suo matrimonio con Michele, un uomo che, con discrezione le è sempre stato vicino, anche nei momenti più difficili e da cui, solo di recente, si è separata. Serena ha un figlio adolescente, Luca, che vive con lei. Si può dire che Serena integri, in una sola, due vite: nella prima vita, quella più ordinaria, è la scrupolosa direttrice amministrativa di un presidio sanitario; nella seconda, meno convenzionale, è una sensitiva che – gratuitamente
– mette a disposizione il proprio carisma a beneficio delle persone in difficoltà. In questa sua seconda vita – come si vedrà meglio di seguito – Serena presta ascolto alle persone in coma, mettendole in contatto con i propri congiunti, aiuta le autorità nella ricerca delle persone scomparse e – su di un piano più profano – lavora come facilitatore nei gruppi di uditori di voci, per poi convogliare il distillato spirituale di tutte queste esperienze in un’attività editoriale che l’ha condotta alla pubblicazione di due libri. È questa – almeno per il momento – l’ultima tappa di una traiettoria biografica che ci porta oltre i confini di ciò che il mio scetticismo mi ha insegnato ad accettare per vero e che ha inizio una ventina di anni or sono, nella seconda metà degli anni Ottanta, quando Serena ha poco meno di vent’anni e, a seguito di un banale intervento chirurgico, – complice la sua emofilia – entra in coma per alcune ore, varcando la soglia che la condurrà al mondo dello straordinario.
“Mentre ero in coma ho avuto un’esperienza di distacco corporeo… Cioè, io vedevo il mio corpo disteso lì, vedevo quello che facevano i medici e sentivo anche la voce di mia nonna che mi parlava (…) Poi dopo, una volta ripresa dal coma ho provato a raccontare a mia mamma quel che era successo, ma lei, lei mi ha detto di non parlarne più… Poi ho cominciato a sentire delle voci, e, visto che mia mamma non voleva che ne parlassi, decisi di non parlarne a nessuno, e per almeno due anni non ne parlai con nessuno…” (Serena).
Le voci entrano nella vita di Serena quasi in punta di piedi, lasciando ogni cosa al suo posto, dal lavoro alla famiglia, destando una “sorpresa” che il tempo trascorso e soprattutto il radicale mutamento dell’orizzonte cognitivo ed emotivo entro il quale quegli eventi vengono ricostruiti ridimensionano sensibilmente.
A ridosso di questa crisi, Serena si avvicina a una comunità religiosa, confidando nel suo appoggio per fronteggiare le proprie voci. Chiede di “imparare a pregare” e il sostegno di un “consulente spirituale”. Serena ricorda il sospetto con cui le sue richieste vennero prese in esame, per poi venir respinte: “mi dicevano di rivolgermi alla mia parrocchia … anche perché io non avevo detto niente delle voci”. Decide, pertanto, di seguire un altro percorso, che nel testo più recentemente dato alle stampe (e di cui mi consigliò la lettura prima dell’intervista) definirà come la propria “ricerca”.
“Fin da giovane, nella mia quotidianità, sentivo bisbigli e parole pronunciate in modo così veloce, che non ne comprendevo una. Restare in silenzio, per me, era un’esigenza per capire se ero strana io o se lo erano le voci che sentivo. La mia ricerca, all’inizio, non è stata una ricerca spirituale, ma un cercare coloro che erano dietro a quei bisbigli. Nella luce del giorno non vedevo nessuno. Nel buio della notte sentivo qualcuno che mi circondava ma non capivo. Al lavoro sentivo come il tempo, e il mio tempo, veniva buttato. L’unico luogo in cui avrei potuto trovare qualcosa era sicuramente a me sconosciuto.
Così cominciò la ricerca di quel luogo invisibile. L’intangibile non si può vedere alla luce, e non si può vedere nel buio. L’invisibile si può percepire ma non si può toccare. Io però sapevo che sentivo delle voci, e di quelle conoscevo bene le vibrazioni, ed ero certa che facessero parte di un invisibile molto importante, Io le sentivo ma non le conoscevo. Così ho cominciato a cercare ciò che non conoscevo.
Se la luce e il buio naturale non potevano farmi conoscere ciò che sentivo, ho cercato un buio artificiale chiudendo gli occhi, e una luce che non conoscevo dentro di me. Quello era il luogo sconosciuto, invisibile e molto importante che cercavo. (…) Le voci che mi accompagnavano in quel luogo sconosciuto hanno cominciato a farsi sentire nitidamente anche alla luce del sole. Quale gioia fu per me ascoltare quelle parole ben scandire in una giornata di cielo azzurro… Le mie paure cominciavano a sciogliersi lentamente. Anche se sapevo di stare meglio a volte avevo paura di farmi male. La mia consapevolezza aumentava. Ogni giorno portavo a casa il mio corpo e la mia mente per cercare di far crescere dentro uno spirito, che nel silenzio si mostrava infinito”. (Serena, da un testo pubblicato nel 2003)
L’intervista consente di mettere a fuoco con maggior dettaglio il processo descritto in una chiave quasi poetica nel libro di cui sopra ho riportato un frammento. Serena racconta che nei due anni di silenzio, durante i quali non condivise con nessuno la propria esperienza, stabilì con le voci un accordo: di giorno l’avrebbero lasciata lavorare in pace, in cambio avrebbe dedicato loro tutte le proprie serate. Fu così che per due anni, ogni sera, Serena si chiuse nella propria stanza per ascoltare quei “bisbigli” e trascrivere al computer tutto ciò che riteneva di intendere.
“Tutte le sere, quando tornavo a casa, mi mettevo al computer e scrivevo tutto quello che mi dicevano le voci. Io scrivo velocemente a macchina e riuscivo a scrivere pagine e pagine tutte le sere, hai capito?… E mio marito arriva a casa e si metteva davanti alla televisione, io stavo nella mia stanza e siamo andati avanti così per due anni senza che lui se ne accorgesse…” (Serena).
La stipula di un patto con le voci, per quanto singolare, costituisce una misura che, in modalità quasi sovrapponibili a quelle indicate da Serena, ritroviamo nella testimonianza di una “uditrice di voci”, raccolta da Marius Romme e Sandra Escher: “ho fatto un accordo con le mie voci che prevede che terrò le mie sere libere per loro. Non sono disponibile per nessun altro dopo le otto di sera. Ho chiesto ai miei amici di non chiamarmi dopo quell’ora. Mio marito, fortunatamente, accetta questa sistemazione delle cose. Il vantaggio di questo metodo è che le voci raramente diventano dure da reggere durante il giorno e io posso vivere meglio”.
L’ascolto e la trascrizione delle voci – alcune “gentili” altre meno – persuade Serena della loro realtà, del fatto che quanto udiva non era il frutto delle sue fantasie: “ascoltavo e scrivevo cose che io non sapevo, non conoscevo. Poi dopo andavo a cercare nell’enciclopedia il significato di alcune parole che avevo trascritto che prima non conoscevo. In questo modo mi sono convinta che queste voci non erano una cosa solo mia, perché mi dicevano delle cose che io non sapevo … che imparavo grazie a loro”. Dopo i “due anni di silenzio”, Serena decide di confidarsi con il marito, manifestandogli, al contempo, la sua intenzione di affrontare le voci interpellandole, anche allo scopo di ottenere da loro “consigli, suggerimenti”. Dal marito ottenne un appoggio incondizionato e l’ascolto divenne dialogo.
“Così un giorno chiesi aiuto a una delle mie voci, chiesi come potevo fare per avere un maggior controllo della situazione.. (…) Un giorno andai in una libreria esoterica e chiesi alla voce [una voce maschile con cui aveva un rapporto privilegiato] di indicarmi un libro che mi avrebbe aiutato… Al ché la voce mi dice: “I maestri invisibili”. Io andai dal libraio e chiesi se avevano un libro con quel titolo, mi dissero di sì, che era un libro di Igor Sibaldi”.
Il libro di Sibaldi presentava una tecnica di meditazione con la quale era possibile costituire una sorta di “laboratorio” entro il quale organizzare la propria esperienza spirituale. Seguendo le indicazioni del testo – occhi chiusi, concentrazione – Serena proseguì nella trascrizione delle proprie conversazioni serali con le voci, accrescendo tanto la propria comprensione quanto il loro controllo. Accadde così che, nel proprio “laboratorio spirituale”, Serena sentì la voce del nonno, deceduto da qualche anno, che la esortava a impiegare le sue capacità a beneficio del prossimo, “per aiutare”. Sorpresa e forse un po’ incredula, Serena chiese a questa voce di darle una prova della propria autenticità. Il nonno le mostrò il proprio orologio e le disse dove avrebbe potuto trovarlo nella casa nella quale aveva vissuto. L’orologio fu ritrovato proprio nel luogo indicato dal nonno: “in un armadio, sotto delle lenzuola”, e ciò persuase Serena dell’autenticità di quella voce, la convinse di “essere in contatto con qualcuno”.
La ricostruzione di quegli anni prosegue con l’illustrazione puntuale e analitica delle “prove”, ora ricercate, ora ottenute del tutto involontariamente, dell’autenticità delle voci, divenute il marchio di una capacità distintiva di Serena, la chiaroveggenza.
“Nel frattempo continuavo ad avere sempre più conferme, una volta, ad esempio ero in un bar e al banco c’era un ragazzo (…) Questo ragazzo che hm, vidi questo bambino che cadeva dalla bicicletta e si sfregiavaaa il viso, e quindi… vedevo tutto il suo viso sporco di sangue (…) Questo ragazzo quando si girò aveva…un segno qua [indica la guancia] una cicatrice qua, al ché io sorrisi perché poi alla fine quando sono tanti fenomeni… Eh comunque cominciavo a diventare diciamo padrona, diciamo che non era più una novità, al che io sorrisi e gli dissi: “Guarda scommetto che te lo sei fatto da bambino quando hmmm giravi in bicicletta”. Perché comunque ridendo e scherzando, per in realtà questa, eh, è invadenza, e io avevo bisogno della conferma, e ogni tanto le chiedevo (…)
Ee, eee, quindiii, eee, come posso dire, in dodici anni di silenzio, che io sono stata, fino a trentadue anni nel silenzio, nel senso che non l’ho comunicato più di tanto, ehm, mi sono rafforzata, mi son resa conto che comunque molto probabilmente avevo delle voci psichiche mie mentali, quelle più negative sicuramente, questa è la mia convinzione, eeehmmm, eee, avevo comunque delle voci che comunque, hm, dicevano cose che io non potevo né inventarmi, non sapere, io ho avuto comunque delle conferme personali…” (Serena).
Colpisce la capacità analitica di Serena che le consente di distinguere due classi di voci, dotate di diversa autonomia ontologica: le voci “mentali”, che lei stessa costruiva, e quelle, vere, sulla cui autenticità ha potuto disporre di “conferme”. Supportata da questa messe di prove, Serena decide di rompere il silenzio anche con la madre, cui racconta delle proprie “premonizioni”, delle proprie “esperienze di chiaroveggenza”.
“Ne parlai anche con mia madre, dicendole cosa mi era successo dopo il coma, delle voci e di queste mie premonizioni, di queste mie esperienze di chiaroveggenza. Al ché mia madre mi disse che questa cosa qua ce l’avevo anche prima del coma, anche da bambina e mi ha ricordato che tante volte, quando veniva qualcuno a trovarci, io prima che andassero via li accompagnavo alla porta e dicevo: “scommetto che…” che so… “avrete un piccolo incidente”, farete questa cosa o quell’altra. E queste cose tante volte capitavano e lo venivano a dire a mia madre. Al ché mia madre mi proibì di dire queste cose e io non le dissi più. Questa cosa però mi sconvolgeva un po’. Prima pensavo che fosse stato il coma a provocare questi fenomeni, invece mia madre mi diceva che ero sempre stato così. Io allora dovevo ripensare da principio alla mia storia, pensare che magari io sono proprio così e che il coma non ha fatto altro che accelerare una cosa che io già avevo dentro” (Serena).
Serena, con l’aiuto della madre, riscrive (allora e ora, nel contesto dell’intervista) la propria storia, reintrerpretando le proprie impertinenze di bimba come il segno di un carisma che solo più tardi riconoscerà come tale. Serena decide, dunque, di sviluppare questa sua capacità e per questo frequenta un corso in Galles, tenuto da una veggente, dove si convince definitivamente che “si può lavorare anche con la mente (…) che anche la mente ha una forza”. Ha inizio così una peculiare transizione biografica, che lentamente trasporta Serena nel mondo della medianità. Da principio – siamo nel Duemila – si avvicina a un Centro culturale della sua regione che offriva ai genitori in lutto per la perdita di un figlio o una figlia la possibilità di entrare in contatto con loro, grazie alla mediazione di sensitivi. Conosce la fondatrice del Centro – “una mamma che ha perso il figlio” – che la invita a mettersi alla prova come tramite, medium, nei contatti fra i genitori e i loro figli defunti. Serena è restia, teme di non reggere il rapporto con ragazzi che potevano avere lan sua età, tuttavia, la speranza di poter rendere un servizio a persone oppresse da una profonda sofferenza, di “aiutare”, come le aveva indicato il nonno, la spingono a provarsi anche su questo terreno.
“Andai a questo convegno e cominciaiii ad ascoltare il relatore. Mentre ero coi relatori dissi: “Va bene, se qui sono dei ragazzi che sono morti, di cui c’è la madre eh, perm-“, ho permesso che comunque mi parlassero… L’avessi mai fatto, di lì a poco un paio di, di ragazzi, non ragazze, soprattutto ragazzi, ehm, dice: “Va bene, allora mia madre è qua, è in seconda fila coi capelli biondi…” (…) E quindiii questa fondatrice mi mise alla prova eeehm, e purtroppo ebbi questo tipo di conferme (…) Quindi magari mi trovavo di fronte il papà di un, di un bambino di tre anni, di dieci anni, di vent’anni, quello che era, o una moglie per il marito che era defunto, e non faceva altro che mettersi di fronte a me, con foto o senza foto, e io non facevo altro che dire: “Bon, sento la voce di un uomo, che mi dice questo, questo, questo”. Che lo vedessi o non lo vedessi fisicamente, io non facevo altro che trasferire ciò che sentivo, quindi è stata una scoperta prima di tutto mia, e poiii queste, questo riferire era consolatorio per queste persone. Per cui io mi trovavo molto… Sono stata tre, quattro anni in questo, anche (con enfasi) in questo ambiente, nei convegni, dove comunque portavo, come relazione era la mia testimonianza: quindi voci, flash e quindi venivo definita sensitiva che nel termine inglese è medium, però più che altro io, eeehm, ho vissuto sempre questo discorso del conflitto economico, dove comunque c’erano persone che si facevano pagare (…)
Questo conflitto l’ho sentito tantissimo perché comunque per me era un dono immenso, l’ho sempre vissuto come dono, eee se, se io dovessi darci un valore, un prezzo, il prezzo sarebbe altissimo per appropriarsene, per cui visto che io non ho pagato nulla e mi è stato dato, anche se comunque è stato un trauma, anche se ho portato sofferenza, ehm, non, non vedevo e non ho mai visto un compenso per ciò che questo riferire delle voci cioè, avesse un merito per essere compensato economicamente” (Serena).
La riflessione di Serena su quanto definisce “conflitto economico” mette in luce l’esito di un processo di rivalutazione della propria diversità, che si configura qui come un carisma, un dono divino così grande che impone generosità, che le richiede di mettersi la servizio di chi soffre, di chi è in difficoltà e di farlo a titolo assolutamente gratuito, poiché la propria retribuzione, per così dire, è già compresa nel dono. Nel medesimo solco, quello della medianità al servizio di chi soffre, si colloca un impegno che Serena assunse di lì a poco: l’ascolto della voce dei giovani in coma a beneficio dei congiunti che ne seguono con trepidazione le sorti. Serena racconta di essere stata avvicinata da alcuni medici presenti ai convegni ai quali era invitata come relatrice. Le proposero, anche alla luce della sua personale esperienza del coma, di impiegare le sue doti per ascoltare la voce dei pazienti in coma. Anche in questo caso Serena decide di mettersi alla prova in un paio di ospedali della sua zona.
“La caposala o la cardiologa della rianimazione, di fronte alla famiglia disperata cosa facevano? Loro buttavano lì una cosa (…): diceva: “Guardate, se voi volete io conosco una persona – non più di tanto – che forse può darvi delle informazioni, o perché vostro figlio le trasferisce o perché lei le sente stando vicino al figlio”. E allora io cosa facevo? Col permesso dei genitori, quando comunque loro dicono: ”Beh, va beh, vogliamo parlarci”, io entro in rianimazione (…) vado col mio registratore e tutto ciò che vedo, stando vicino al, a quel corpo di quel ragazzo in quel caso, e tutto quello che sento, io lo dico. E quindi cosa abbiamo scoperto? Che stando vicino al corpo del ragazzo o della ragazza o dell’uomo, io riesco a vedere comunque il vissuto, un vissuto suo, e questo vissuto, sotto forma di, di flash, io lo racconto: quindi se è un incidente la dinamica e cos’è successo prima, cos’è successo dopo. E, all’inizio sai, io rimanevo però poi mi sono abituata (…) All’inizio il mio turbamento cioè la mia inquietudine è stata proprio del fatto che una volta che uscivo dall’ospedale io riferivo a tutti ai genitori, questo (…) Loro non mi dicevano niente, mi portavano sul luogo dell’incidente e mi dicevano: “Questo è l’incrocio che hai visto, questa è la casa che hai descritto, quello là è il capannone che m’hai descritto, queste sono le chiavi che m’hai detto questo …”. (…) Per me era inquietante perché? Perché (sorride) tutto quello che ero andata a riferire, loro mi davano conferma al millesimo” (Serena).
Un potere così grande, sembra dire Serena, impone un’altrettanto grande responsabilità nel comunicare ai congiunti le buone, così come le cattive notizie sulla prognosi: “ho imparato a non dare diagnosi, a non dire ciò a cui uno va incontro (…) non mi sbilancio proprio, perché comunque dico: «Se sbaglio?», mi dico: «E se ho visto male?»”.
Un ulteriore ambito d’impegno per Serena riguarda la ricerca di dispersi e, più in generale la collaborazione con i tribunali, per i quali si mette al servizio come un “cane segugio” seguendo le tracce che la conducono, ora a una persona smarrita, ora, nel caso di un delitto, al corpo del reato.
“Quando c’è un omicidio il tribunale assegna sempre un, una figura che è l’investigatore diciamo non ufficiale. Cioè, quando viene fatta una perizia balistica che, non quella ufficiale dove ci sono i giornalisti e tutto, però ehm, prima che venga fatta l’ufficiale, vien fatta una perizia balistica anonima, dove comunque non viene comunicato alla stampa a nessuno, e in questo caso vengono usate persone come me, dove comunque la persona assegnata dal tribunale prende una sensitiva e poi dopo ti fa sentire gli oggetti, gli oggetti della persona morta, oppure ti fa entrare nel, nell’appartamento. Logicamente una persona sensibile o telepaticamente, per, per il vissuto che c’è in una casa, è in grado di vedere certe immagini, e quindi io non faccio altro che riferirle, anche se comunque nella maggior parte dei casi, nel mio caso, non è necessario andare nella casa, ma è sufficiente un oggetto, la ciabatta, il pigiama, così. Il loro obiettivo, al 90% dei casi, è trovare il corpo del reato, perché per loro dare il corpo, cioè trovare il corpo del reato vuol dire poi sbrogliare tutta la situazione, cioè una sensitiva può dargli il vissuto a, b, c, d, e, un’ora dietro un’altra, però se non si trova (sorridendo) il corpo del reato loro poi non riescono a dimostrare come hanno saputo a, b, c, d, cioè, il pezzo finale, il loro, è sempre questo (…) È stranissimo da spiegare però esiste…” (Serena).
Con l’ultimo degli impegni di Serena rientriamo in un territorio più familiare che non costituisce una sfida allo scetticismo di chi scrive e, forse, anche di chi legge queste pagine. Serena racconta di essere stata avvicinata dal Centro di Salute Mentale della sua regione che, a conoscenza della sua singolarissima esperienza di fronteggiamento delle voci, le propose di condurre un gruppo di uditori di voci.
“La psichiatria di *** [nome località] s’è fatta avanti perché tramite una persona, un operatore, che mi conosceva (…) e m’ha detto: “Guarda Serena la psichiatria, eee, ha questo tipo di problema: ci sono uditori di voci, persone che stanno bene, professionisti, avvocati che vanno in reparto e dicono: “Sento le voci, sto male, mi dia delle pastiglie che non voglio più sentir le voci”.
Persone equilibratissime, e il primario dopo tre mesi che ti dice: “Quella stessa persona, equilibrata, che ha la professione, dopo tre mesi che sente le voci è impazzita” … “ha mandato affanculo tutti, a puttane il matrimonio (sorridendo)” mi spiego? E questi sono casi, eh, sempre, purtroppo, più frequenti, per cui in un certo senso c’è stato questo grossissimo scambio, anche loro han cercato di capire la chiave che mi ha concesso di, di non impazzire, di non, non esser seguita da uno psichiatra, di non aver preso psicofarmaci, cos’è che mi ha aiutato, per cui mi dice: “Non che ci sia una verità assoluta però ”dice“ se il tuo esempio può esser d’aiuto a un uditore di voci, dire: se ce l’hai fatta tu ce la posso fare anch’io” (…) Allora di lì ho presentato questo progetto, ho detto: “Qual è il vostro obiettivo?” [il primario] fa: ”Sarebbe il massimo fare un gruppo di auto-mutuo-aiuto” (…) ho detto: “Va bene, allora io faccio il facilitatore”, quin- Il massimo è avere un facilitatore uditore di voci con degli uditori di voci, perché comunque in questo gruppo ci sono due operatori infermieri e un educatore, però non sono uditori ed è evidente come gli uditori fanno riferimento a te (enfatizzando) che sei uditore, perché a chi non sente le voci, non lo guardano nemmeno in viso, ecco. Quindi adesso… andremo … anche *** [nome località] ha chiesto la collaborazione e, e apriremooo un altro gruppo di uditori di voci a Parma nella, in psichiatria, e questo per me comunque è realizzante” (Serena).
Serena affronta questo impegno con il medesimo spirito di servizio con cui si cimenta nelle altre attività di impianto più spirituale, consapevole di come la sua persole esperienza, il suo “metodo” di fronteggiamento delle voci possa essere di aiuto ad altri uditori: “con ognuno di loro si cerca di trovare il loro equilibrio, ma non perché la Serena ha un metodo, ma perché con la Serena se ne può parlare; allora con un uditore di voci si sbilanciano di più, cioè in un attimo impari la storia, hai capito? E con lo psichiatra non sempre si sbilanciano perché comunque hanno qualche pastiglia in più dopo, e quindi…”. La consapevolezza di maggiori possibilità di intesa fra uditori di voci, non sfocia, tuttavia, nell’adozione di posizioni anti-psichiatriche: “io rispetto tantissimo la psichiatria, questa è stata la mia premessa quando mi han chiamato, perché comunque quando non sai dove sbattere la testa almeno /un ospedale ti accoglie sempre/ (ridendo)…”.
(…)
Il primo passo verso la ricostruzione della propria identità, Serena lo compie con l’accettazione delle proprie voci, che, da principio si configura come una timorosa e insieme sospettosa disponibilità all’ascolto. L’accettazione delle voci rende possibile quel patto di convivenza che le consentirà di attribuire un senso alla propria esperienza. E questo senso si profila al termine di un lungo itinerario riflessivo che consente a Serena di riconoscere l’autonomia ontologica di quei “bisbigli”, o meglio, che le consente di separare le voci “psichiche”, “mentali” che attribuisce a se stessa, alla propria sofferenza, dalle altre voci, quelle dietro le quali si celava qualcuno, altro da sé.
Nel proprio “laboratorio spirituale” e, soprattutto fuori da esso, Serena raccoglie prove, conferme che suffragano una lettura della propria esperienza che, progressivamente prende corpo, che la conduce a trasformare lo stigma della sofferenza psichica in un carisma, un dono divino, che non può che essere condiviso.
“Cioè è come se tu fossi un medico, dottore, che se va a fermare un’emorragia, vede una persona che ha un’emorragia, cioè tu ti senti di aiuto no? se puoi aiutarlo, puoi evitargli il peggio. Ecco, io mi sento così, nei confronti di un uditore, nei confronti di una persona che è in difficoltà, nei confronti anche di una persona che magari molto ferita, che è in coma, che lanci un appello comunque parla in un altro modo dove comunque io posso percepire, se uno ci crede o non ci crede è un problema personale, una scoperta personale, ecco” (Serena).
Questa vocazione al servizio si lega a una specifica tensione spirituale che progressivamente ha preso forma. Sue Rowlands, maestra spirituale in Galles e ora mentore di Serena, nella prefazione all’ultimo libro che la mia interlocutrice ha dato alle stampe (dal quale ho tratto la citazione riportata più sopra), la annovera fra le “ambasciatrici che Dio ha scelto su questa terra”. Nel medesimo testo, Serena rilegge la propria sofferenza come una prova che l’ha condotta a Dio.
Questa tensione spirituale ritorna, in tono più sobrio, anche nell’intervista, quando esplicitamente interpellata sul suo rapporto con il divino, Serena osserva: “ecco, non so cosa si intenda bene con divino, io comunque, credo comunque in un’anima, che comunque in un qualche modo può, può comunicare, può parlare. Io parlo sempre di un mondo spirituale perché comunque lo collego a un’anima”.
Ecco dunque Serena ben radicata nella nuova identità, quella di una medium che restituisce il proprio dono attraverso l’aiuto ora alla madre in lutto, ora al giovane in coma e ai suoi congiunti, ora al disperso. Da qui, l’ultima tappa, quella che, paradossalmente verrebbe da dire, la conduce nel luogo che la più parte delle persone con la medesima esperienza avrebbero incontrato nella prima stazione del proprio percorso, la psichiatria. Qui, tuttavia, Serena approda in una veste che non è quella del paziente, che chie de aiuto per fronteggiare la propria sofferenza, ma in quella dell’esperto non professional che mostra, innanzitutto con l’esempio della propria vita, che si può fare altrimenti, che la “pastiglia” non è l’unica soluzione possibile, consegnando questo suo orientamento anche negli auspici con cui si chiude il nostro colloquio: ” spero che tu riesca a farti sentire su questa cosa (…) cioè, non dico dimostrare, però far capire che si può uscire da una certa situazione non obbligatoriamente dalla psichiatria…”.
(…)
In due frammenti del libro a sua firma, cui ho già attinto più sopra mi sembra di cogliere in modo allusivo, ma, al contempo eloquente, la chiave di lettura di Serena della propria diversità: Tutti noi, come uomini, siamo fiori e frutti di quella terra, ognuno con la propria forma e, quando ci inchineremo, i nostri occhi vedranno che la forma di qualsiasi fiore ha un bellissimo colore, un delicatissimo profumo e una voglia di vivere lì, in quel prato, senza essere rimosso, senza essere limitato a sopravvivere dentro a un piccolo vaso. (…) Ho capito che i fiori della tua creazione sono tutti belli. Le viole non hanno nulla da invidiare alle rose, come nulla il profumo della rosa nel colore del giglio. Se le margherite volessero essere tulipani i campi di primavera non sarebbero più gli stessi.
(…)
Questa, dunque è Serena, una donna che ho avuto il privilegio di conoscere di persona: nei lunghi colloqui telefonici che hanno preceduto l’intervista e poi con l’intervista da cui ho tratto le riflessioni raccolte in questo paragrafo. Ho incontrato una donna equilibrata, consapevole della propria differenza, presentata con garbo, senza alcuna spavalderia, mostrando di saper accogliere lo scetticismo di chi – in buona fede – la ascolta. Serena, ancora oggi, convive con le proprie voci, sulle quali ha imparato ad esercitare un efficace controllo, che ha saputo disciplinare: ” ho la mia disciplina mentale ho comunque il rispetto delle voci che comunque mi rispettano; per cui ti dico, io oggi sono impegnata per due giorni e non voglio sentirvi, io per due giorni non li sento, quando sono ammalata non li sento … mi spiego? Poi magari è un compromesso mentale, non importa, io questo equilibrio l’ho ottenuto, io ho dato questa spiegazione, potrebbe essere quella giusta, potrebbe non essere quella giusta, per me è quella giusta”.