Sono Giovanni Ficarelli, uditore di voci da una trentina d’anni. Dal lontano millenovecentoottantadue sono in carico al DSM dell’AUSL di Reggio Emilia. Il mio percorso di recovery (guarigione), è cominciato allora: con colloqui con gli psichiatri e con le terapie farmacologiche (particolarmente utile nella fase acuta). Tuttavia un aiuto equivalente, se non superiore, l’ho avuto dalla frequentazione del gruppo di auto-mutuo aiuto “Noi e le voci” di Reggio Emilia. Ho conosciuto questo gruppo nella seconda metà dell’anno duemilasei, in seguito ad una telefonata di Gloria, che mi ha portato a conoscenza di questa realtà. Partecipai per la prima volta, mosso più che altro da curiosità; ma ben presto mi resi conto che il gruppo poteva darmi molto ed io a esso. Dopo pochi minuti mi sentivo come se fossi stato una pentola a pressione al limite dello scoppio, che ascoltando e spesso condividendo le esperienze altrui, aveva come uno sfiato e si riportava così in equilibrio. I primi benefici veri, però, si manifestarono dopo qualche mese; dopo, cioè, che ebbi imparato nelle strategie per far fronte alle voci: ad esempio darsi un orario del giorno in cui scrivere ciò che le voci mi dicevano, o dedicare più tempo alla preghiera. Fatto sta, che tra ascolto, condivisione, aumento della responsabilità verso se stessi e verso gli altri e verso gli altri, le strategie di affrontamento delle voci, dopo due anni e circa sei mesi avevo eliminato tutte le voci fastidiose: me ne sono rimaste solo due o tre, decisamente “buone”, tra cui quella di mia madre, deceduta sette anni prima. A questo punto, non avevo più bisogno del gruppo, ma decisi di continuare a frequentare, per dare quel poco di aiuto agli altri, che l’esperienza mi aveva messo in grado di dare. Siamo alla fine dell’anno duemilanove o pochi mesi dopo; Cristina Contini che era sempre stata la facilitatrice del gruppo, decide di lasciare a me questo compito. Dopo tanti ricoveri, ed anche un tentativo di suicidio (mi sparai alla tempia con un fucile), a causa delle voci, mi trovavo facilitatore del gruppo. Grazie alle cose imparate da Cristina e con l’esperienza, mi resi conto ben presto che il facilitatore deve soprattutto saper ascoltare, senza dare consigli o suggerimenti, pur rammentando, ogni tanto, le strategie risultate, in generale più efficaci: nel caso si senta tirato in ballo per un suggerimento o un consiglio, deve saper mettere “la palla al centro”, chiamando in causa un altro uditore per sentire il suo parere sul problema sollevato. Deve anche far attenzione, affinché tutto quello che emerge nel gruppo, rimanga in quella sede e non esca in altri ambienti. Fare il facilitatore è anch’esso un processo di crescita, che sviluppa soprattutto la capacità di ascolto e l’umiltà. Credo che il suo compito, sia quello di ascoltare in silenzio i vari membri del gruppo, intervenendo, eventualmente solo per limitare solo chi si dilungasse troppo o per dare la parola a chi tace da molto tempo. La posizione del facilitatore, non è quella di leadership, semmai quella ei persona al servizio del gruppo. Questa esperienza, mi ha poi dato la possibilità, assieme ad altre quindici persone in via di recovery (Ron Coleman: appropriarsi della propria vita…) di frequentare un corso per diventare facilitatore sociale, con relativo tirocinio di duecentocinquanta ore al CSM Morselli. Dove facevamo accoglienza ai pazienti e ai genitori di disagiati psichici mentre attendevano le visite psichiatriche: questo si è rivelato essere un compito più complesso e ampio, con persone dalle più disparate patologie e non solo con disturbi di cui abbiamo esperienza (vedi voci)- il tirocinio è stato valutato positivamente dall’Azienda, e alcuni di noi avranno un posto di lavoro accanto agli operatori del CSM. Questo cos’altro è se non la dimostrazione che da una fase, chiamiamola sfortunata, si possono trarre gli strumenti per dare aiuto a qualcuno che in quel momento ne ha bisogno?
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Testimonianze