Una notizia molto importante ma non sufficientemente divulgata dai media riguarda le persone che “sentono le voci” – o Uditori di Voci. Finora questo fenomeno era di per sé sufficiente perché una persona fosse diagnosticata come schizofrenica, secondo i criteri del DSM IV, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali che fa da guida per la diagnosi delle “malattie psichiatriche”. Metto le virgolette perché già in altre occasioni il Manuale etichettava come patologiche situazioni che in realtà appartengono all’anima e alla realtà umana1.
Questo sviluppo positivo – per ora soltanto annunciato2– aprirà modalità nuove di intervento rispetto alle persone che vivono gli aspetti disagevoli di questo fenomeno. Il Mondo degli Uditori di Voci è vasto e variegato; il tema spaventa ed è caricato da uno stigma profondissimo, che ha inciso sulla visione che la collettività ha di queste persone e che deve essere affrontato e “sciolto”, se vogliamo che questo colpo di penna scientifico che elimina le “allucinazioni uditive” dalla diagnosi diventi poi una vera, nuova modalità di osservare il fenomeno e di intervenirvi con nuovi strumenti ma, soprattutto, con occhi nuovi e cuore aperto.
Cosa vuol dire sentire le voci
Prova a immaginare: attorno a te il silenzio pacato, avvolgente; la calma, il sonno che ristora. Ritrova quella sensazione di benessere che viene dopo una notte di riposo vero e rigenerante e, ora, prova a immaginare che non ti sia più possibile. Che un mondo di voci ti si accalchi intorno, voci che ti sembrano vere, che risuonano alle tue orecchie altrettanto reali di un amico o di un nemico. Non puoi ridurne il volume, non sai come farle tacere, allontanarle. Questo è il mondo degli Uditori di Voci. Mondo circondato da un lato da uno stigma pesantissimo, quando le voci sono negative, distruttive, invalidanti; o da un senso di diffidenza o di grande fascinazione quando le voci sono di entità spirituali, di trapassati, di qualcosa che insomma pensiamo possa anche esistere ma che, a chi non sente (o non vede) è precluso. Giudizi e sensazioni estreme quindi, che impediscono la pacatezza di una valutazione realistica del fenomeno. Fenomeno in aumento, in particolare tra i giovani, e probabilmente causa – spesso taciuta se non anche ignorata – di tanti improvvisi suicidi o atti di autolesionismo. Si è buttato dalla finestra. Ma voleva veramente uccidersi? O voleva soltanto poter gustare il silenzio? Si taglia, si ferisce, si brucia con le sigarette… si detesta? O forse si dà uno stimolo, doloroso è vero, ma che per qualche istante impedisce di sentire le voci?
I “segnali” che accompagnano il processo
Quando una persona inizia a sentire le Voci, soprattutto se sono negative, sminuenti, o se sono tante, tende in genere a chiudersi in sé stessa. La chiusura riguarda la famiglia, gli amici; si può smettere di uscire di casa, chiudersi nella propria camera, magari ascoltando musica a tutto volume (per non sentire le voci); alcune persone cominciano ad avere comportamenti strani che sono in realtà ordini dati dalle voci cui la persona non riesce a dire di no. Oppure iniziano a “parlare da sole”, in realtà rispondendo a questi colloqui interni. Altre persone diventano violente, aggrediscono i famigliari, perché così la voce sta imponendo; la lotta interna è faticosa e devastante. A volte poi la persona pensa che si tratti di voci reali e diventa quindi sospettosa verso il mondo.
Quando le voci sono positive, consolatorie, possono anch’esse provocare all’inizio paura e disagio, salvo poi diventare fonte di positività, apprendimento, saggezza. Se tuttavia la persona non riesce a gestire la presenza delle voci positive, e quindi a farle tacere quando ne ha bisogno, finirà anch’essa per sentirsi frustrata e arrabbiata.
Insomma, che siano distruttive o costruttive, le Voci possono diventare una presenza talmente pressante, coinvolgente, da devastare la vita della persona che le subisce.
Un esempio per tutti la diagnosi di omosessualità come disturbo CTR che fu tolta dalla edizione ……. Del Manuale, consentendo così una “guarigione di massa” di migliaia di persone! Resta il fatto che lo stigma, i pregiudizi riguardo all’omosessualità sono ancora fortissimi, ma almeno si è allontanata la visione patologica.
La nuova Edizione del Manuale uscirà nel maggio 2013
Le possibili cause scatenanti
Vorrei sottolineare che l’emergere di una voce non significa che la persona non sia mentalmente sana e vi è un’ampia gamma di situazioni in cui è possibile sentire delle voci di un qualche tipo senza sentirsene particolarmente destabilizzati.
Vi sono però eventi più stressanti: la morte di una persona cara (la voce può essere quella del defunto), periodi di solitudine reale o percepita, interventi chirurgici, una bocciatura a scuola, la separazione dei genitori, cambiare città e ambiente, violenze, abusi o abbandoni. Gli eventi possono essere più o meno gravi, visti da fuori, ma l’entità dello stress dipende da diversi fattori, l’età della persona, la sua sensibilità, la sua maturità emotiva, lo stato di salute, il contesto culturale e sociale.
Vediamo in ordine crescente di complessità:
Le esperienze ipnagogiche: sono i momenti tra la veglia e il sonno. Si possono sentire suoni, musiche, voci familiari, il proprio nome detto ad alta voce. A volte l’esperienza è cosi vivida che la persona si sveglia totalmente. Vi sono studi che mostrano che circa il 70% degli adulti ha avuto esperienze di questo tipo3.
I sogni: molte volte le persone riportano esperienze oniriche in cui un personaggio del sogno parla, o una voce fuori campo dice qualcosa di importante. Ci sono persone che hanno sogni prevalentemente uditivi.
Nell’infanzia, “l’amico immaginario”: si tratta dell’esperienza, comune tra i bambini, di giocare con un compagno immaginario, specialmente negli anni prescolari. In genere queste immagini scompaiono con la scuola, ma in certi casi vanno avanti anche nell’adolescenza e nell’età adulta. Spesso il fenomeno è accompagnato dal sentire la voce dell’amico, come se fosse reale.
La perdita di una persona cara: il fenomeno di sentirne la voce, a volte accompagnato anche dalla percezione della presenza del defunto, è più frequente nei primi mesi dopo la scomparsa4. In genere si tratta di un’esperienza consolatoria e di sostegno. Tuttavia in genere le persone non ne parlano, perché hanno paura delle critiche o della derisione degli altri – o di essere considerate mentalmente fragili.
I traumi, lo stress: come detto, l’entità dell’evento è legata anche alla sensibilità particolare della persona. Un evento drammatico che è alla base di molte esperienze legate alle voci è l’abuso, o comunque una infanzia di abbandono, deprivazione affettiva, stress emozionale. La privazione per lungo tempo di cibo, sonno, compagnia è anch’essa fonte di fenomeni uditivi.
Stati di malattia, medicine: una febbre alta può essere accompagnata da sintomi uditivi; l’iperventilazione può scatenare questa esperienza. Molti farmaci hanno tra i loro effetti collaterali allucinazioni di vario tipo, tra cui queste delle voci5.
Esperienze con le droghe: le sostanze psichedeliche possono attivare diversi fenomeni allucinatori, tra cui il sentire le voci. In molte culture tradizionali, l’utilizzo di sostanze psicotrope per attivare esperienze trascendentali o di guarigione era condotto all’interno di un percorso iniziatico, guidato da uno sciamano esperto, e contenuto all’interno di una comunità sociale che ne condivideva il senso. Nella nostra società l’utilizzo “selvaggio” delle droghe ha creato vasti spazi di esperienze non guidate, non condivise, a rischio quindi di devastare la persona. Anche l’utilizzo della tavoletta “Ouija”6 può attivare il fenomeno delle Voci.
Le “esperienze di pre-morte” (NDE, Near Death Experience). Il fenomeno ha cominciato ad essere studiato dal dottor R. Moody7, negli anni ’70. Più del 40% delle persone che sono “ritornate” dall’esperienza NDE riportano di aver vissuto sentimenti di grande pace, la sensazione di aver viaggiato molto velocemente all’interno di un “tunnel di luce” o comunque verso una luce molto brillante, di aver incontrato persone care, amici o “Esseri di Luce”. Per molti, è stato come se la loro vita fosse scorsa davanti ai loro occhi in pochi istanti. La scelta di “ritornare” è spesso dolorosa, legata a sentimenti di amore verso i propri cari e anche alla consapevolezza di avere la propria missione di vita da completare. Moltissime di queste esperienze sono accompagnate dal sentire delle Voci, che spesso continuano ad essere presenti come guide, nel nuovo percorso che la persona deve affrontare nella vita, profondamente mutata dall’esperienza.
L’ispirazione: che sia creativa o trascendentale, una forte ispirazione può essere accompagnata da percezioni uditive o sensoriali. Il poeta Rilke, l’artista visionario William Blake, il compositore Schumann, sentivano voci creative durante i loro momenti di produzione artistica. Sul fronte dell’esperienza spirituale, della chiamata vocazionale, possiamo ricordare il Mahatma Ghandi, che per tutta la sua vita si è affidato a una guida spirituale di cui sentiva la voce.
Personaggi famosi che sentivano le voci
Nella lunga storia dell’umanità moltissimi personaggi famosi erano uditori di voci: in campo religioso, Mosè, Gesù, Santa Teresa, San Francesco, Sant’Agostino, Giovanna d’Arco, San Paolo, Santa Ildegarda di Bingen, Maometto; in campo filosofico e psicologico, Socrate, Platone, Freud, Jung, Swedenborg, Ghandi, Elisabeth Kübler-Ross; in campo artistico, Rainer M. Rilke, Andy Warhol, Schumann, Vincent Van Gogh, Ligabue. Ancora, lo statista Wiston Churchill e per finire “atterrando” ai tempi nostri, il calciatore Zidane, Anthony Hopkins, Penelope Cruz.
Come è stato affrontato finora
Nella nostra cultura, il sentire le voci è stato collocato come sintomo sicuro di schizofrenia o disturbo mentale. Disturbo visto come cronico, quindi da trattare con un approccio di semplice contenimento, che va nella direzione dell’ospedalizzazione, del trattamento con il farmaco – da prendere a vita, tanto non vi è possibilità di risoluzione e in ogni caso i rischi di ricaduta sono certi. Questa visione sconfortante ha contribuito ad alimentare il pesantissimo stigma che circonda questo disagio, facendo sì che molte persone tacciano, rischiando in tal modo l’aggravarsi di un sintomo che potrebbe essere alleviato in tempi molto più rapidi e con minore sofferenza. Certamente, finché il sintomo è considerato diagnostico di schizofrenia, la voglia di “uscire allo scoperto” per farsi trattare è rara!
“Il volto del dottore divenne serissimo quando menzionai la voce, e insistette nel segnalarmi a quello che definì uno “specialista” ospedaliero, che in realtà si rivelò essere una psichiatra. Quello che io volevo e mi serviva era parlare con qualcuno delle mie sensazioni d’ansia e scarsa autostima, che provavo sin dal mio arrivo al college. Ma la psichiatra puntò sull’enfatizzazione dell’importanza della voce, come se stessimo discutendo di una formula matematica secondo la quale avere quel tipo di esperienza significasse automaticamente che io fossi folle. (…) All’improvviso, non ero più una giovane donna istruita della classe media con un futuro roseo davanti a me, ma una paziente mentale potenzialmente pericolosa. Percependo lo stigma correlato a ciò, non dissi a nessuno di aver iniziato colloqui settimanali con un’infermiera psichiatrica, oltre ad appuntamenti mensili con la psichiatra. Durante questi colloqui, cercai ancora di esprimere la mia ricerca di un’identità da quando ero partita da casa, ma queste normali sensazioni di insicurezza adolescenziale furono subito interpretate come sintomi di una mente malata. Sebbene non credessi di essere matta, mi fidavo – come farebbe chiunque – delle opinioni mediche della psichiatra anziché del mio istinto. Al mio secondo colloquio con la psichiatra, due mesi dopo, essa suggerì di farmi ricoverare in ospedale “solo per tre giorni” per sottopormi ad esami. (…)
Nel frattempo, alla voce della mia mente, quella tranquilla, se ne aggiunse un’altra più stridula e critica. Nel corso delle settimane successive, il numero delle voci, a volte maschili e altre femminili e tutte molte più minacciose, andarono aumentando fino a diventare dodici. Di tutte queste, la voce più dominante, e demoniaca, aveva il tono minaccioso di un uomo. (…) Pensai che fosse il risultato dei farmaci che prendevo e della mia lunga e stressante degenza in ospedale. Ma uno psichiatra mi convinse che era un altro sintomo della schizofrenia paranoica.(…) Dopo tre mesi d’ospedale, ritornai al college: una studentessa molto diversa e molto più disturbata da quella che ero stata. Come risultato degli effetti collaterali dei farmaci, il mio peso era balzato da 57 a 95 chili. Inoltre ero affetta da un tremore costante e camminavo ondeggiando. Ancora oggi non so come gli altri studenti avevano saputo dov’ero stata, ma in qualche modo era successo. Dopo una settimana dal mio ritorno, la porta della mia stanza del pensionato venne deturpata da graffiti e qualcuno sputò al mio passaggio mentre andavo a lezione.
(…) Al mio successivo colloquio con la psichiatra dissi che pensavo che i farmaci rendessero peggiori le mie voci e chiesi se potevo smettere di assumerli; lei insistette che dovevo continuare. Quando ammisi di avere pensieri suicidali in conseguenza di come venivo trattata nel college, mi rimandò in ospedale per altre sette settimane. (…). Nel corso dei mesi estivi, mi portarono al servizio psichiatrico della zona, a Bradford. Il mio primo appuntamento fu con uno psichiatra di nome Pat Bracken. Mi chiese perché mi fossi rivolta a lui e io risposi sinceramente: “Ho 18 anni e sono una schizofrenica paranoica”. Successivamente, durante la cura, Pat mi disse che la mia risposta era la dichiarazione più sconsolata che avesse sentito da una ragazza, ma tutto ciò che disse quella volta fu: “Mi dica cosa pensa che potrebbe aiutarla”. Gli chiesi di ridurre gli psicofarmaci. Con mio grande stupore, fu subito d’accordo. Parlammo delle mie voci ed egli mi suggerì di smettere di considerarle un sintomo di malattia mentale e di iniziare a vederle come un modo per capire me stessa.(…) Nel corso dei sette mesi successivi, io e Pat ci siamo incontrati a intervalli regolari settimanali, riducendo gradualmente i farmaci sino ad eliminarli. Durante tutto questo tempo, scoprii che se affrontavo le voci, esse diventavano meno frequenti. Imparai anche a sfidare la mia voce più minacciosa, rifiutandomi di fare ciò che voleva facessi e dicendo a me stessa che non era altro che un simbolo della mia stessa rabbia esteriorizzata.(…) Da tre anni sono in buona salute, felice e perfettamente stabilizzata. La schizofrenia è un’etichetta spaventosa e fuorviante che stigmatizza le persone. Mentre i dottori insistono nel dire che sono stata schizofrenica, non so se questa etichetta mi appartenesse veramente.(…) Spesso mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me se non avessi incontrato uno psichiatra che ha capito come curarmi. Se adesso sento una voce non sono più spaventata, poiché capisco perché mi succede. Per mia madre, il campanello d’allarme dello stress è un attacco di emicrania. Per me, sono le voci”8.
Ospedalizzazione, psichiatria, farmaci: queste sono state finora le soluzioni adottate. I risultati, potete immaginare, sono stati scarsi per mille evidenti ragioni, prima tra tutte il fatto che la diagnosi stessa era “a vita”. Che tipo di sforzo, di impegno di guarigione può mettere un medico che è stato condizionato a pensare in termini così rassegnati, verso un fenomeno che effettivamente, quando è grave, desta sconforto e paura? Oltre a questi aspetti drammatici sul piano della vita della persona, vi sono anche i costi economici, che sono elevatissimi.
Tuttavia anche in queste condizioni non sono pochi i movimenti che hanno iniziato a prendere la distanza dallo stigma e a cercare di trovare formule nuove, più umane e coraggiose, di affrontare il problema9. Se le voci emergono dopo un trauma, la cosa logica è chiedersi cosa è rimasto sospeso, inaccudito, non elaborato: come dice Eleanor nella sua testimonianza, è importante iniziare a vederle come un modo per capire noi stessi. La voce è l’espressione di un problema. Il nostro sistema invece sopprime la voce con gli psicofarmaci – cosa che può essere indispensabile in fase acuta, ma che, protratta, elimina il sintomo ma anche … la persona, che non ha più stimoli, risorse, volontà e vita propria. E neppure la possibilità di elaborare il grido disperato di aiuto che la voce rappresenta.
Vivere con le Voci: da sintomi a esperienze
Una premessa è doverosa a questo punto del viaggio: le “voci”, o sé interiori, sono una realtà condivisa della psiche umana. Tutti noi umani siamo “molteplici”: abbiamo aspetti diversi che si muovono dentro di noi, ci sostengono, ci sabotano, ci “parlano” (anche solo nel flusso del pensiero discorsivo)… la differenza è che c’è un “io” che mantiene le fila di queste diverse energie – che possono anche appartenere a piani diversi di realtà.
Se questa visione della molteplicità fosse serenamente condivisa, come sarebbe più facile inquadrare il fenomeno “udire le voci” nella sua realtà!
Una Voce, dunque, è una Parte di noi che porta un messaggio: magari urlato, magari brutale, magari devastante, ma ha a che fare con il trauma subìto, con un’istanza di vita, con un bisogno non percepito. Come affrontare queste emozioni? Come potenziarsi rispetto alle Voci, in modo da creare un “io” più cosciente, più centrato rispetto alle Parti?
Rapidamente, alcuni punti essenziali:
Accettare la realtà delle Voci, imparare ad ascoltarle. Creare una relazione con le Voci è la via più importante per potenziare il “centro” e apprezzare la ricchezza, la complessità, le risorse che le Voci possono offrire. Anche voci che inizialmente si presentano come ostili, nemiche, arrabbiate, possono cambiare nel tempo e diventare più amiche.
Scoprire qual è il messaggio della Voce. Ogni Voce ha una sua visione della realtà, delle sue convinzioni. Ascoltarle con curiosità e mente aperta aiuta a comprenderne la storia, l’origine. Ovviamente questi due punti richiedono di superare la paura delle Voci, e questo richiede l’aiuto di un counselor/ terapista / facilitatore esperto del processo.
Imparare a relazionarsi con la Voce in modi diversi. Se la Voce è aggressiva, anziché arrabbiarsi a propria volta o sentirsi vittima, si può chiedere qual è la ragione di quella rabbia.
Alla luce dei cambiamenti che il nuovo DSM porterà, occorre offrire una maggiore informazione su questo argomento, disimparando quello che è stato insegnato e diffuso da decenni! Questo vale sia per gli operatori di ogni livello, che per le altre persone coinvolte. Studi indicano che circa il 20% degli adolescenti potrebbe soffrire qualche volta di questi fenomeni10; i genitori, gli amici, gli insegnanti debbono sapere che il fenomeno non è necessariamente grave, e che nella maggioranza dei casi si può risolvere con dei colloqui, se l’aiuto giusto arriva ai primi segnali.
Creare gruppi di auto-mutuo-aiuto sia per gli Uditori che per i famigliari è una cosa importantissima che già sta avvenendo in molte zone11.
La nostra vita sul pianeta è troppo breve perché continuiamo a sprecarla tra paure, dissidi, sperpero e divisioni. Anche se questi elementi di paura e di sconforto vengono alimentati in tanti modi, non possiamo dimenticare “chi” siamo; e neppure che gli altri, che condividono questo così breve tempo, sono nostri fratelli, condividono il nostro stesso destino. Forse possiamo cominciare a guardarci negli occhi, almeno ogni tanto, e riconoscere questo viaggio comune, questo comune destino. E forse, allora, diventa più facile riconoscere che tutti, in qualche modo, siamo stati feriti e che tutti, in qualche modo, possiamo essere l’uno per l’altro strumento di guarigione.
